Controcanto. Peggy, regina di Venezia

La storia della collezione Guggenheim a Palazzo Venier dei Leoni 

«A Venezia, per favore, se è possibile, niente orribili, volgari alberghi, ma, se appena fattibile, alcune belle vecchie stanze, del tutto indipendenti, per un po' di mesi (…) parte di un palazzo storico pittoresco».

Henry James, Le ali della colomba (The Wings of the Dove), Schibner’s Sons, New York City, 1902 

Dorsoduro è un corno ma a differenza di Costantinopoli non è d’oro. La sua punta, alla Dogana da mar, Santa Maria della Salute, l’Accademia, Ca’ Rezzonico e tutto il bordo verso il Canal Grande, sono candidi come d’avorio. Di marmo e di pietra d’Istria, nella palazzata in continuo, rotta dai canali che tagliano le insule, dalla Giudecca al Canal Grande. Nel retro, dagli ingressi di terra (se così si può dire), le facciate ritrovano la dimensione dei mattoni e del legno e poi degradanti in case sempre più minuscole, sbrecciate nei mattoni o macchiate negli intonaci, con gli abbaini alti, quasi campaniletti a vela. Il linguaggio quasi lirico del primo itinerario del sestiere della Guida Rossa Venezia del Tci, incurante della pavimentazione delle calli, inzaccherata dai cani e scurita dalla illuminazione precaria, lo descrive «A Sud del Rio»: «rimane ancora leggibile la struttura urbanistica tipica di una insula interna, definita da una interessante edilizia minore a carattere popolare e assistenziale (con alcuni felici esempi di case a schiera settecentesche), articolata lungo calli-corti parallele fra loro».

«A Nord del Rio» ritorna a ridosso del Canal Grande la Venezia letteraria ed esclusiva della Belle Èpoque. Alla calle e al ponte di San Cristoforo, verso il Palazzo Venier dei Leoni, una lapide sul muro di mattoni, del rossiccio fanè che tende all’aranciato del campiello, ricorda Henri de Regnier «sinueuse et delicate, Venise ressemble à l’agathe, avec ses veines de canaux… (sinuosa e delicata, Venezia somiglia all’agata, con le sue vene di canali)» e il cancello in ferro battuto, nere alghe sottili inglobanti geometrici rombi di vetro opaco colorato, introduce al giardino della Peggy Guggenheim Collection. 

 

Venier dei Leoni era come un dente cariato sul Canal Grande. Non finito neppure il piano terra, per l’esaurirsi dei soldi dei Venier o per l’ostilità dei vicini che non volevano perdere la vista sul bacino di San Marco. Lei lo aveva voluto comprare per trasferirvi la sua collezione. Quel che restava della sua vita di donna indipendente e libera, ricca da poter fare quel che voleva ma non così ricca da poter fondare un museo come suo cugino Salomon. Parigi, il tempestoso matrimonio con Laurence Vail e l’atmosfera bohémienne e squattrinata del primo dopoguerra. La compagnia di Romaine Brooks e Natalie Barnes e del loro Salon di sole donne alla ricerca del successo; l’apertura di gallerie d’arte a New York, per ospitare mostre a loro dedicate. Dadamax (Ernst), Futurballa (Balla), Picasso, Picabia e tutti gli altri amici di cui aveva acquistato, ricevuto in regalo, scambiato, negli anni, le opere. Ora aveva trovato il luogo adatto. 

Lei sposava Max Ernst e negli stessi anni la figlia sposava Jean Hélion, in una competizione senza fine. Molti anni dopo, divenuta vecchia, inseguiva Henry James e i suoi quattordici soggiorni veneziani nei palazzi di Bianca Capello o in Palazzo Barbaro o altrove. Erano comparsate lungo i canali stretti con il suo fido Barozzi, l’antiquario, che la descriveva, adorante (lui), nella biografia postuma Una donna, una collezione, come la Milly di Le ali della colomba «che commentava ogni aspetto di quella Venezia che (lei) amava non come una città, ma come una persona viva». È vero anche per lei l’epitaffio che il suo amico Marcel Duchamp fece mettere sulla lapide della tomba che l’avrebbe ospitato: «c’est toujours les autres qui meurent (sono sempre gli altri che muoiono)».

Illustrazione di Franco Spuri Zampetti
Peso: 
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