Dino delle montagne

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Passeggiate nelle terre di Dino Buzzati, tra la grande villa alle porte di Belluno, le vette delle Dolomiti del suo cuore, e i luoghi dei “miracoli di Valmorel”

Alle volte bastano cinque scalini per starsene comodi a contemplare tutto il mondo che ci serve. Cinque ruvidi scalini di pietra come quelli su cui Dino Buzzati amava sedersi con la macchina da scrivere sulle gambe, nel giardino della sua grande villa di famiglia alle porte di Belluno. Vedendola oggi ci si immagina dovesse essere immersa in un gran silenzio, in quegli anni. La strada provinciale era già lì, fuori dal cancello ma le automobili saranno state poche e quasi silenziose. A difenderla dal rumore c’era un’infilata di carpini che in piena estate si univano fino a chiudersi, come le volte di una galleria. Non una casa di montagna, la villa di San Pellegrino, ma una casa tra le montagne che sorge in un punto dell’ampia Valbelluna in cui ovunque ti giri vedi cime, crode e vette. «Questa la casa dove sono nato, questi i prati dove ho imparato a camminare, le piante tra cui da bambino ho combattuto le prime battaglie con i Pellerossa, le immagini, i momenti, le luci, le voci dove sono venuti i primi presentimenti, le prime esaltazioni spirituali» scrive Buzzati. In quella grande villa veneta cinquecentesca ma con inserti romantici – come gli affreschi sulla facciata, ormai sbiaditi – e un’intera ala neogotica, il poliedrico Buzzati, giornalista, scrittore, pittore e fumettista, era nato nel 1906, ed è sepolto, nella chiesetta al limitare della proprietà. «È venuto al mondo proprio lì, nelle finestre sullo spigolo a sinistra, che danno verso il Piave, dove sono nati, sempre tra ottobre e novembre, altri due dei suoi tre fratelli» racconta Valentina Morassutti, la pronipote – sua madre, Lalla, era figlia della sorella Angelina –, che qui vive da una ventina di anni. «In questa casa tornava spesso.

Ma le vacanze, quelle lunghe, le faceva sempre a settembre. Di norma sono settimane in cui il tempo qui è sempre bello, secco, con un cielo azzurro. E allora andava ad arrampicare, a Cortina e poi in Val Canale, nella zona delle Pale di San Martino» racconta. Per tutta la vita il bellunese Buzzati è stato legato alla sua terra, anche se in verità qui c’è solo nato, perché ha sempre vissuto a Milano, dove è cresciuto – nella casa in via San Marco –; dove ha lavorato, al Corriere della Sera in via Solferino; dove ha passato la vita adulta, cambiando quattro abitazioni, fino alla Casa della Fontana, in viale Vittorio Veneto, dove è vissuto fino agli ultimi giorni, nel 1972. «A Milano sono sempre vissuto, la quasi totalità dei miei ricordi di ogni genere appartiene a Milano» scrisse. Eppure, è sempre lui a specificare che «la mia patria (…) si chiama Belluno e benché sia capoluogo di provincia, vado constatando da decenni che quasi nessuno tranne i bellunesi, sappia dove sia (e in molti ne ignorano l’esistenza)».

Del resto «Buzzati non sarebbe stato Buzzati se non fosse nato qui, se non avesse trascorso la sua infanzia tra queste montagne, in quella casa». Ne è sicura Patrizia Dalla Rosa, studiosa di letteratura che da 30 anni si occupa dello scrittore bellunese e oggi è responsabile della ricerca al Centro studi Buzzati di Feltre, che occupa alcune nobili sale di quella che fu, fino al 2010, la sede dell’Iulm della cittadina. «Da ragazzino in città viveva una routine da figlio della buona borghesia, un’educazione rigida, religiosa. Quando invece veniva qui godeva di estrema libertà, come è stato per me da ragazzina» racconta Morassutti. «I bambini erano liberi di andare per tutta la proprietà, perdersi nei terreni che da qui arrivano fino al greto del Piave, il cui letto bianco e ampio ogni anno era diverso. Qui ha inventato le prime poesie, e ha incontrato quella natura che ha colpito il suo immaginario» prosegue.

 

E dunque è giusto che qui, nel 2006, sia nata l’Associazione culturale Villa Buzzati San Pellegrino-Il granaio. «Con mia sorella Antonella, che è la direttrice artistica, volevamo che questo posto non fosse un luogo privato, ma fosse aperto a tutti. Noi avevamo la fortuna di vivere in questo mondo buzzatiano, ed era giusto restituirlo, condividendolo» racconta. Così oltre all’Associazione, che ha un cartellone culturale estivo che va dalla musica al teatro, alle letture sceniche e si tiene tra il giardino e il granaio, ha aperto anche un piccolo b&b, Villa Buzzati. «Il sogno è trasformare tutto questo in una casa-museo, dedicandola però non solo a Dino, lo scrittore, ma anche al resto della famiglia, come il fratello Adriano, genetista, e a mio padre, l’architetto Bruno Morassutti. Non vorremmo un mausoleo, ma uno spazio vivo, uno spazio di cultura che fa cultura, non solo legata a Buzzati» racconta Morassutti.

Anche altri pensano che Buzzati e la sua eredità, letteraria e non, potrebbero essere maggiormente valorizzati sul territorio. Buzzati per esempio ha segnato anche le vite di Silvio de Marchi e Isabella Pilo. Lei di Treviso, lui di Feltre, si sono conosciuti nel segno dello scrittore, per via della tesi di Silvio, uno studio sulla costituzione di un parco letterario dedicato a Buzzati. «Il parco non si è mai fatto, però ci siamo sposati» scherza lui. Da qualche anno hanno aperto un b&b a Feltre, Casa Novecento, dove le stanze sono dedicate a letterati della zona, e ovviamente una è dedicata a Buzzati, con fotografie alle pareti e altri ricordi. «E poi lasciamo sul comodino i suoi libri, in modo che chi viene, se già non lo conosce, possa incuriosirsi».

Isabella è anche guida turistica, con passione certosina ha creato alcuni percorsi assai densi per seguire le tracce dello scrittore tra la città di Belluno, la villa e gli altri luoghi buzzatiani. «Li accompagno a scoprire Limana e la Valmorel – racconta –. Che sono i luoghi dove sono ambientanti I miracoli di Val Morel, un libro che è una raccolta di tavole di ex voto fantastici, dove casi impossibili di tentazioni, sciagure, attacchi alieni o ferini, incidenti, rapimenti vengono risolti dall’intervento provvidenziale di Santa Rita da Cascia». Così Isabella accompagna i turisti a scoprire due piccole chiese lungo il sentiero Dino Buzzati, che sale ripido da Limana, tocca Giaon con le sue case affrescate che si ispirano in parte ai racconti di Buzzati, e prosegue fino al Santuario di Madonna Parè, aperto grazie ai volontari del paese. Li porta anche a vedere il piccolo sacello dedicato a Santa Rita «che semplicemente non esisteva prima, ma è stato edificato dopo l’uscita del libro, anche se è stato inaugurato solo un anno dopo la sua morte». E poi ancora più su, verso Valmorel con la sua latteria turnaria e Valpiana, al tiglio Buzzati, che cresce su un pianoro da cui si gode una vista ampia, rasserenante su tutta la Valbelluna, e le vette del Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, le montagne della sua vita, “remote bianche pareti di rocce, vette solitarie”.

«Aveva sempre nelle tasche, nel portafoglio, alcune fotografie di montagna che teneva fino a quando non si sbiadivano e poi le sostituiva» racconta Dalla Rosa. Da quei cinque gradini della villa si vede la grande muraglia della Schiara, la montagna aspra che domina Belluno. A Buzzati piaceva vederla come un quadro, le sue montagne, con gli spigoli della villa e del granaio, che le chiudono, come fossero cornici. Nelle giornate terse al centro del suo quadro si distingue anche la Gusela del Vescova’, l’Ago del Vescova’: un monolite di 40 metri che spicca solitario, come fosse una Madonnina che svetta su un profilo di guglie. «Sono le montagne che ha scalato da ragazzino, la prima volta quando aveva 13 anni, e dove poi è sempre tornato ad arrampicare, fino ai sessantasei anni» spiega. E sarà per questo che lo sguardo, nei libri come nella vita, puntava sempre e costantemente in su. «Buzzati amava, come lo amo io che sono feltrina, quel mondo fatto di verticalità ma anche pendenza, chiuso dalle montagne che in un certo modo rassicurano, ma spingono anche a pensare che cosa c’è oltre, a essere attratti dall’altrove» spiega. Così le Dolomiti, aspre e affascinanti, hanno rappresentato una costante nella vita dello scrittore. Che amava certo Cortina, e «le splendide alte valli dolomitiche cinte di crode», ma era affascinato anche dalle selvatiche montagne, da «quelle valli che non hai mai visto da altre parti (…) più enigmatiche, intime, segrete».

Terre alte, estreme, territori sperduti contorti e spopolati che dal 1988 sono tutelati dal Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Terre morfologicamente in netto contrasto con la Valbelluna, larga e comoda. Posti come la Valle del Mis, che taglia trasversalmente le Dolomiti Bellunesi e risale, attraverso il passo Cereda, verso il Primiero e la provincia di Trento, oppure verso l’Agordino. Una vallata stretta, di rocce grigie e profili bizzarri, boschi di faggi e carpini, segnata da un lago artificiale creato negli anni Sessanta che ha inondato i borghi del fondovalle. «Questa è una montagna che va conquistata, sono Dolomiti poco appariscenti, le cui irte vette si intuiscono da sotto, ma le cui guglie e torri si aprono maestose e verticali solo quando sali in quota», racconta Enrico Vettorazzo, responsabile della comunicazione del Parco. Qui ci sono poche strade, qualche malga, poca presenza umana, tanti silenzi sempiterni. «Per salire in alto, scalare le crode dolomitiche, godere di quei paesaggi, devi comunque fare 900 metri di dislivello. Questo fa selezione, porta meno gente, più predisposta a godere di queste asperità» spiega. È una montagna diversa, anche rispetto alle altre Dolomiti più conosciute, una montagna senza piste e impianti di risalita. «La morfologia rende difficile fare le piste, e l’industrializzazione – siamo nella patria dell’industria degli occhiali mondiale – ha spinto le persone ad altre scelte, rispetto allo sviluppo turistico» spiega. Montagne come i Monti del Sole, nel gruppo dei Feruc, che davvero poco sono cambiate da quando le raccontava Buzzati, negli anni Sessanta: «Le montagne meno battute e frequentate di tutte la Alpi, tanto sono bestiali gli approcci, per la ripidezza, la selvaticità, la mancanza di sentieri». Montagne misteriose, dai lunghi inverni. Luoghi di solitudine e leggenda, che Dino Buzzati ammirava da lontano fin da bambino, seduto sui quei cinque scalini nel grande parco davanti casa, sognando di salirvi, scalando – come ha fatto – vette, reali e dell’immaginazione.

Fotografie di Vittorio Giannella
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