Riscopriamo la geografia. L'importanza di un nome

Dopo il caso Olimpico-Paolo Rossi, una riflessione sulla toponomastica degli stadi

Si chiama Meazza, ma per tutti è solo San Siro. A Genova il Luigi Ferraris è Marassi, mentre a Udine nessuno dice “vado alla Dacia Arena”, si va al Friuli. A Roma (nella foto) e a Torino, è più pacifico: c’è l’Olimpico. Dare il nome ai luoghi, modificarne o rinnovarne la denominazione è una fase del processo di territorializzazione e anche gli impianti sportivi sono in questo senso degli spazi contesi. A oggi, otto dei 17 stadi dove si disputa la Serie A ‘21-’22 sono intitolati a presidenti e atleti che hanno fatto la storia di questo sport. Tra questi anche gli impianti di Genova e Milano, noti anche con il nome del quartiere in cui si trovano. Una prima motivazione sul perché delle titolazioni è rendere omaggio alle persone e rafforzare l’orgoglio locale: “era dei uno nostri”. Possono essere ascritte a questa categoria gli stadi di Venezia e Salerno che hanno trovato i loro riferimenti in un eroe di guerra (Pier Luigi Penzo) e un principe longobardo (Arechi). Tuttavia la pratica di assegnare agli stadi il nome dello sponsor che ne acquisisce i diritti, naming rights, è da tempo diffusa in altri Paesi europei (l’Emirates Stadium dell’Arsenal e l’Allianz Arena del Bayern Monaco) e soprattutto in Nordamerica. Il primo caso di pubblicità di questo genere risale al 1912, quando fu inaugurato il Fenway Park di Boston dove giocano i Red Sox del baseball. Il proprietario dello stadio era titolare della società immobiliare Fenway Realty e in questo modo aspirava a rendere più appetibili le sue nuove costruzioni. Nel baseball, produttori di gomma da masticare (Wrigley) e di birra (Bush) hanno legato il proprio nome agli impianti sportivi delle loro squadre, Chicago Cubs e St Louis Cardinals. In Italia i diritti di denominazione caratterizzano gli impianti di proprietà di Juventus (2011), Udinese (2013) e Atalanta (2019); e quelli in cui giocano Sassuolo (Mapei) e Cagliari (Unipol Domus). Una toponomastica determinata da motivazioni economiche che concorre, spesso in modo effimero, a narrare la territorializzazione sportiva in Italia.

La curiosità geografica ci spinge ad andare oltre le motivazioni che determinano e inducono le scelte, per indagare come l’ufficialità e l’immaginazione si confrontano con la realtà e l’uso dei termini. Mancano all’appello i tifosi, per i quali andare alla partita è anche abitare un luogo, attribuirgli un senso e un significato collettivi. E allora si va al Friuli e non alla Dacia Arena, agli Azzurri d’Italia e non al Gewiss stadium, San Siro e non Meazza. Nel complesso la reazione del pubblico alla pratica di rinominare gli stadi, con la cessione dei diritti o per omaggiare personalità di spicco, è positiva se la società acquirente ha un intenso legame e una tradizione produttiva nell’area, rafforza l’identità sportiva e agisce da forza centripeta. Altrimenti naufraga. Come tanti italiani ricordo a memoria la formazione che vinse i Mondiali ‘82. A Paolo Rossi dedicherei sicuramente uno stadio e, forse perché sono un romantico, suggerirei un processo decisionale che non si limiti ai diritti di proprietà e ai contratti. Il consenso è essenziale, il processo decisionale deve condurre a soluzioni apprezzate dalle tifoserie, specie se la motivazione è rendere omaggio a una persona e non prevale la finalità economica. Lo sport è dinamico quanto il territorio e le territorialità che danno senso a quegli spazi ne faranno, come a Bologna, prima uno stadio Littoriale che diventa Comunale e oggi Dall’Ara; uno stadio municipale Mussolini, poi Comunale, Vittorio Pozzo, Olimpico e Grande Torino; uno stadio del Sole, poi San Paolo e Diego Armando Maradona.

*docente geografia UniMc, membro Aiig

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