di elenadelsavio
È uno dei palazzi milanesi più magniloquenti. Sicuramente fra i più visibili e visti, considerato dove si trova – lungo il primo, trafficatissimo tratto di corso Magenta – e che la sua facciata barocca, con le quattro grandi statue scolpite – due telamoni che reggono il balcone e due figure ai lati dell’enorme stemma che orna il fastigio –, non può sfuggire a chi appena alza gli occhi dal marciapiede. Pure, la sua usuale inaccessibilità (nonostante l’invitante portone aperto sul bel cortile) lo esclude da quel senso di appartenenza che i milanesi provano verso altri edifici iconici della città in cui si riconoscono. Un peccato, perché i saloni di Palazzo Litta sono stati dal Seicento all’Ottocento uno dei principali scenari della vita e della cultura milanesi (e non solo). E perché la storia del palazzo è strettamente legata a quella della famiglia che lo ha edificato e abitato, e che per tre secoli ha intrecciato la propria esistenza con quella della città.
Non essendo quindi possibile ricostruire la narrazione di una vicenda storica famigliare e cittadina partendo dalle sue tracce materiali – come accade per altre dimore appartenute a illustri famiglie milanesi, dai Poldi Pezzoli ai Bagatti Valsecchi, divenute musei aperti al pubblico – il libro appena uscito di Franca Pizzini, Vita a Palazzo Litta (Skira), aiuta almeno a seguire il percorso inverso. E cioè a intravedere attraverso il racconto delle gesta della dinastia Litta gli oggetti, gli arredi e le decorazioni lasciati dal loro passaggio; e che seppure in minima parte ancora che si celano dietro alle finestre serrate e ai cancelli chiusi della loro dimora.
Attingendo di prima mano a documenti d’archivio l’autrice delinea l’articolato lignaggio della famiglia di cui Carlo Porta avrebbe detto con felice sintesi: I Litta hin ricch, sfondaa in di milion, pien fiaa ai oeucc de titol e de onor, nobil, de nobiltaa che han quistaa lor, e che san mantegniss cont i soeu azion (I Litta sono richi, sfondati di milioni, pieni fino agli occhi di titoli e di onori, nobili di nobiltà che hanno acquistato loro e che sanno mantenere con le proprie azioni). Quello che ne esce è il ritratto anche umanamente vivido di una dinastia che rappresentò una summa delle famiglie più in vista nell’aristocrazia lombarda, una genealogia di ricchezza e di potere che nasce Arese e muore Litta ma in cui si mescolano i Visconti, i Borromeo, i Cusani, i Barbiano di Belgiojoso, e attraverso questi gli Omodei, gli Archinto, gli Stampa... grazie a un’astuta politica di alleanze matrimoniali che allarga l’influenza e le relazioni della famiglia oltre i confini lombardi e anche, nell’accezione odierna, nazionali.
Trecento anni di storia, quindi, che prendono le mosse dall’ascesa di Bartolomeo II Arese (1508-1562), nato pochi anni appena dopo la fine della signoria sforzesca in una famiglia di giuristi e alti funzionari pubblici e divenuto vicetesoriere ducale nei primi anni della dominazione spagnola, e arriva fino all’ultimo Litta, Pompeo (1865-1921), che già non vive più nel palazzo, venduto all’asta dallo zio Antonio nel 1878 alla Società Ferroviaria dell’Alta Italia (da cui sarebbe poi passato alle Ferrovie dello Stato). Fra i due, spiccano figure quali Bartolomeo III, colui che fece edificare il palazzo sull’allora corso di Porta Vercellina: magistrato di giustizia, reggente onorario del Consejo de Italia (organo della corona spagnola per i governo degli Stati italiani, fra cui il ducato di Milano) e infine presidente del Senato. Tanto potente da essere chiamato il “dio di Milano” e tanto oculato da designare eredi le due uniche figlie femmine, maritate a rampolli Visconti e Borromeo, per non disperdere il nome e le sostanze. O ancora Giulio Visconti Borromeo Arese, fra gli uomini più ricchi di tutta la Penisola, maggiordomo maggiore dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, vicerè di Napoli e magnate di Transilvania, che costruisce lo scalone e dà inizio al rifacimento della facciata del palazzo. E Antonio Litta, erede di una famiglia di banchieri lombardi che sposa l’unica figlia di Giulio, Paola, e trasforma il palazzo in una reggia. E poi Pompeo III Giulio Litta, amante e promotore della musica e delle arti, che apre la sua dimora a Johan Christian Bach e a Mozart. E ancora un altro Antonio, nominato duca da Napoleone, e il fratello di lui Giulio Renato, ambasciatore di Malta a San Pietroburgo e amico degli zar Alessando I e Nicola I... Fino a un’altra coppia di Antonio e Giulio, i fratelli che nel 1848 portarono con entusiasmo il nome dei Litta sulle barricate: come ci ricorda un quadro che raffigura una episodio dei moti rivoluzionari antiaustriaci sullo sfondo proprio di Palazzo Litta.
Di tutti il libro tratteggia come in un romanzo lieve le glorie e le miserie, gli onori e i lutti, sottolineando il ruolo avuto da ciascuno nell’evoluzione politica ma anche culturale e sociale di Milano: dalle grandi feste organizzate per il passaggio in città di principesse di sangue in viaggio verso nozze regali ai salotti letterari, animati da figure quali Goldoni, Parini, Monti, Stendhal... Ci sono gli aristocratici e i loro famigli, i protagonisti e i comprimari, nel racconto corale dei fasti di una famiglia di magistrati e mercanti ricchi divenuti nobili per eredità e nomine regie (non ultimo il titolo di duchi, elargito da Napoleone Bonaparte), che intessono rapporti di amicizia e di carriera con le principali case regnanti europee, dagli Asburgo agli zar di Russia. Ma che finiranno per sperperare un’ingentissima fortuna in investimenti sbagliati, costosi oneri di manutenzione di infinite proprietà, errori di contabilità e disonesti amministratori, sanzioni e generose elargizioni egualmente sostenute per nobili cause. Un capitale lo manterranno intatto, quello politico, accumulato schierandosi sempre, per convinzione prima che per opportunità, dalla parte dei potenti di turno. Ma permettendosi anche, alla fine, di sposare la causa risorgimentale, subendone per ritorsione sequestri e confische da parte del maresciallo Radetzky. Un ricco apparato iconografico ci mostra i volti di tutti questi personaggi; e ci fa balenare davanti agli occhi e ricchezze di arredi, quadri e decorazioni che profusero nel palazzo. E che, nella maggior parte dei casi, non sono più qui, ma sono andati dispersi in musei e quadrerie, pubblici e privati, in seguito alla vendita dell'edificio.
Una lettura accattivante e vivace, che però lascia un po’ di rimpianto per l’impossibilità di accedere al “lascito” materiale della famiglia. C’è solo da sperare nel ripetersi delle occasioni che in passato hanno consentito l’accesso, seppure in occasioni sporadiche. Come le visite guidate in costume Invito a Palazzo, proposte in occasione di Expo 2015. L’iniziativa ha avuto il sostegno tecnico dalla Fondazione Palazzo Litta per le Arti, la onlus del Teatro Litta, che da trent’anni, nel teatrino barocco del palazzo e nell’attiguo spazio della Cavallerizza, tiene vivo il più antico palcoscenico milanese ancora in attività, l’unico spazio del palazzo regolarmente aperto al pubblico. Le visite, effettuate con il sostegno dei volontari del Touring Club Italiano, sono state volute dal ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, cui il palazzo pertiene dal 2007 (vi ha sede il Segretariato regionale MiBACT per la Lombardia). E che in un futuro neanche troppo lontano potrebbe aprire a tutti, e in modo stabile, le porte di casa Litta.
Franca Pizzini, Vita a Palazzo Litta, Milano 2015, Skira. Pagine128, euro 24.
