70 anni di festival a Trento: montagna sempre protagonista

Si è appena conclusa la settantesima edizione del Filmfestival di Trento, una edizione molto attesa perché dopo due anni di pandemia ci si chiedeva come sarebbe stata la reazione del pubblico. Sarebbe tornato a riempire le sale? Ebbene ora che il festival è appena terminato possiamo dire che ha superato la prova alla grande, segno che gli appassionati non vedevano l’ora di poter tornare a vedere i film nelle sale cinematografiche. Per spingere gli appassionati nelle quattro sale dei cinema la direzione del festival quest'anno non ha realizzato la piattaforma informatica che ha permesso la visione da remoto nei due anni di pandemia; chi ci ha rimesso indirettamenre sono stati i tanti giornalisti che negli ultimi anni affollavano la sala video per fare indigestione di film sui pc portatili, da mattina a sera. Con questo disservizio si è ridotta la possibilità di vedere tanti film in pochi giorni perché ovviamente dovendo andare nelle sale si è dovuti sottostare a orari e programmi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mentre nel passato stando a Trento 4 giorni si riusciva a vedere una quarantina di film ora in quattro giorni il bottino di film visti si è ridotto a una quindicina!

Serate, tavole rotonde, mostre
L’evento, diretto come sempre da Luana Bisesti (mentre il Presidente del Festival è Mauro Leveghi), però non è solo cinematografico, ma consiste in una miriade di iniziative tra incontri, serate, mostre (tra cui quella grandiosa sui 70 anni di festival), presentazioni di libri, convegni e dibattiti, tanto che non sarebbe possibile seguire tutto anche se ci si dovesse fermare a Trento dieci giorni, quanto dura l’evento. E poi il bello del Festival è che ci si incontra tra appassionati, alpinisti, registi e giornalisti.
Tra gli eventi di quest’anno non è mancata la serata con Reinhold Messner, ma anche gli incontri con Tamara Lunger e Hervé Barmasse, ospiti ormai fissi dell’evento. Messner per celebrare i 70 anni di Festival ha presentato sette volte, una per ogni decennio, una scalata significativa, dialogando con i giovani alpinisti che hanno poi ripetuto queste imprese. Barmasse ha invece tenuto una serata su Scipio Stenico, che nel secondo dopoguerra ebbe l’idea di organizzare il Soccorso alpino in Trentino, prima pietra di quella struttura nazionale che vide poi la luce pochi anni dopo sotto l’ombrello del CAI. Tamara Lunger ha invece presentato le sue avventure nei due anni di lockdown. Ma molti altri ospiti hanno calcato i palchi di cinema e teatri: impossibile citarli tutti, mi soffermo solo su Mauro Corona, il novantenne, ma sempre arzillo Kurt Diemberger, Fausto De Stefani. Innumerevoli gli argomenti trattati nei convegni: uno fra tutti, la Montagna al femminile: come le donne vivono e leggono le Terre alte. Hanno partecipato nomi quali Anna Facchini presidente Sat, Linda Cottino scrittrice, Anna Girardi alpinista ed editor del CAI, Tamara Lunger, Luana Bisesti direttrice del Festival e l’artista Riccarda De Eccher.

Ma veniamo ai film, il piatto forte del Festival di Trento. Intanto come era composta la giuria internazionale di quest’anno? Vi hanno partecipato Marta Balaga giornalista finlandese, Michelangelo Frammartino regista, Illum Jacobi regista danese, Christian Quender docente austriaco e Stefania Troguet alpinista francese.

Hanno vinto i gaucho diventati cowboy
Anche quest’anno non siamo molto d’accordo con i verdetti espressi dalla giuria, soprattutto per il premio CAI, ma non solo. Il Gran Premio Città di Trento, il massimo riconoscimento è andato a Gaucho americano del regista cileno Nicolas Molina, un film che racconta la vita di due gaucho suoi connazionali della Patagonia, emigrati per lavorare in un ranch dell’Idaho negli Stati Uniti. Assunti come allevatori di pecore i due ragazzi affrontano le difficoltà di lavorare in terra straniera pur di vivere il sogno americano. Bello il vasto e aspro paesaggio del West americano che ci ha riportato indietro al tempo dei cowboy.

Il secondo premio assoluto, ossia il Premio del CAI per il miglior film di alpinismo, popolazioni e vita di montagna invece grida allo scandalo. Sia chiaro: il film che ha vinto questo premio è molto bello: si tratta di Dark Red Forest del regista cinese Jin Huaqing, ma è del tutto fuori luogo dal contesto del premio CAI. Si tratta di un ottimo documentario, girato in un monastero buddista tibetano a 4000 metri di altitudine, che segue la vita di migliaia di monache nella preghiera, nella contemplazione e nella confessione al proprio guru, rivelandoci un mondo ancora medievale e inimmaginabile. Le cabine grandi come un ascensore dove le monache si ritirano per giorni sparse e isolate sul fianco della montagna, giorno e notte, a temperature sotto lo zero, per poter trovare l’illuminazione ci hanno particolarmente colpito. Ma nonostante molte splendide scene e le relative riflessioni sulla montagna e sul rapporto con essa, non è assolutamente giustificato il premio CAI. Questo, almeno, è il nostro pensiero, ma ci siamo resi conto subito già a Trento che non eravamo i soli a pensarla così.
Non è purtroppo la prima volta che ciò succede: già era avvenuto nel 2019, sempre per il Premio del CAI – l’ultimo anno del festival in presenza prima del covid – con il film La Regina di Casetta, ma ritengo che quest’anno si sia superato ancor di più il limite. Almeno per il Premio del CAI lo spettatore si aspetterebbe di vedere un bel film di alpinismo o di arrampicata! Film che indubbiamente c’erano in concorso ma che la giuria ha del tutto ignorato come il film su Adam Ondra o quello con Cedric Lachat,oppure l’opera S’avanzada sul mondo dell’arrampicata in Sardegna - che per fortuna ha almeno vinto il premio minore Mario Bello messo in palio dal Centro di cinematografia del CAI -, il film su Tom Ballard e Daniele Nardi scomparsi sullo Sperone Mummery al Nanga Parbat. O infine l’opera A woman’s place piacevole documento sui 100 anni di vita del Pinnacle Club, curiosa associazione alpinistica inglese composta da sole donne che trova il modo di riunirsi in allegria, di arrampicare e di ritrovarsi nel proprio rifugio (l’Emily Kelly Hut) sui monti del Galles.
Un altro premio importante è stato quello della città di Bolzano; qui ha vinto La panthere des neiges di Marie Amiguet, un onesto documentario girato ancora in Tibet per documentare il leggendario leopardo delle nevi. L’opera è indubbiamente pregevole e ben fatta ma non ci ha particolarmente colpito, abituati come siamo a vedere tanti film simili al festival di Sondrio girati nei parchi e nelle riserve naturali dove gli appostamenti ad animali rari del Pianeta sono pane quotidiano.

Sul fronte cinematografico occorre ricordare ancora, tra i 130 film ammessi alle proiezioni tra quelli in concorso, le anteprime e i fuori concorso, la presentazione della copia restaurata di Italia K2 del 1954, del regista Marcello Baldi, e i film del bolognese Mario Fantin girati negli anni Sessanta, per ricordare i 40 anni dalla sua scomparsa (Fantin, regista, fotografo e scrittore fece le riprese del film Italia K2 e a lui è stato dedicato pure il nuovo film “Il mondo in camera” del regista Mauro Bartoli, in concorso).
Quest’anno inoltre, il Trento Film Festival si è arricchito di una nuova sezione: grazie alla collaborazione con Hervé Barmasse e con il content creator e music producer Tudor Laurini e al coinvolgimento di altri content creator, Nick Pescetto, Camilla Roses e Omar Martinello in arte Omero, è nata Quarta parete, sezione dedicata ai content creator e aperta alle opere prodotte per canali YouTube e altri canali non tradizionali. Alla sezione potevano essere iscritte opere ispirate alla Serendipity, dove la bellezza delle terre alte sia descritta attraverso la meraviglia e l’inatteso. Ha vinto Iceberg lake in Switzerland del content creator Bruno Pisani.

Michele PurinPaolo ValotiMichele PurinMichele PurinMichele PurinFrancesco CarrerPiero CarlesiPiero Carlesi

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