L'Appennino questo sconosciuto. Pare impossibile ma questa dorsale che dalla Liguria finisce nell'Aspromonte, questa imponente catena montuosa nel cuore del territorio nazionale, questa robusta spina dorsale della nostra Penisola è praticamente sconosciuta ai più, ignorata dalla maggioranza dei turisti e dei viaggiatori e in gran parte spopolata dai residenti, prima emigrati all'estero e poi negli ultimi decenni attirati dalla facilità della vita di pianura, dalle sirene delle città, dalla comodità delle metropoli.
Eppure questo “serbatoio dell'anima contadina” come scrive il presidente del Touring Franco Iseppi, nel suo editoriale di questo numero della rivista del Club, “questo museo delle memorie devozionali di vita comunitaria” è vivo e lotta gagliardamente per sopravvivere. E la dimostrazione c'è stata proprio quest'estate, la prima del post epidemia che ha visto, un po' costretti, un po' per curiosità, milioni di italiani (gli stranieri sono rimasti per forza di cose lontani dall'Italia) risalire le valli che baldanzosamente e speranzosamente avevano disceso i loro nonni e genitori. Viaggiatori e turisti che hanno scoperto che quei paesi, quei piccoli borghi (tra cui ovviamente anche molte Bandiere arancioni del Touring) circondati da foreste, prati, pascoli e ruscelli non erano per niente morti. Anzi.
Se il distanziamento sociale era assicurato e più che naturale in quegli spazi, tuttavia, a macchia di leopardo, resistevano qui e là insediamenti umani, laboratori artigianali, e molti giovani che di ritorno dalle città, avevano deciso, da soli o in gruppo, di scommettere di nuovo sulla terra, spesso quella di origine, di restaurare la casa lasciata dai nonni, per mettere in piedi attività imprenditoriali legate all'agricoltura e all'allevamento, ma affrontata con metodi e una mentalità aperta e frutto magari di esperienze cosmopolite in giro per il mondo. Lentamente la cosiddetta Italia minore si è rivelata ai loro occhi, come a quelli dei turisti e viaggiatori, un'Italia migliore (almeno dei pregiudizi) complice il disamoramento per la obbligata vita urbana della primavera in lockdown, ma ancora appesa al rischio di una seconda ondata pandemica e in una generale crisi economica.
La nostra rivista ha registrato fedelmente i movimenti e i flussi turistici di questa estate anomala (movimenti confermati poi dai sondaggi del nostro Centro Studi) e ha dato spazio a questi territori dell'interno scoprendone storie, personaggi e paesaggi di un fascino sorprendente. Basta leggere il reportage del cammino intrapreso dal nostro inviato Antonio Armano lungo la antica via del sale che da Varzi nel Pavese scende giù fino al mare di Camogli (una volta veniva percorso al contrario dagli “spalloni” che trasportavano appunto il sale, elemento essenziale per conservare carni e insaccati, dalla Liguria fino alla pianura padana). Oggi è un sentiero che nel giro di pochi tornanti ti strappa dalla vita cittadina e ti trasporta tra una serie infiniti di colline, di cime, di paesaggi selvaggi e solitari, boschi secolari, laghetti artificiali, torrenti che non hanno nulla da invidiare alla tanto celebrata wilderness del nuovo mondo. A ricordargli di essere ancora nella madre patria i tranquilli luoghi di sosta, le piccole locande, gli alberghetti accoglienti e una volta entrati, le cucine dai piatti tipici della tradizione e della cultura contadina realizzati a mano sotto gli occhi dell'ospite viandante.
Una conferma, se ancora ce ne fosse stato bisogno, ci è arrivata da un altro Appennino, quello abruzzese, e in particolare da un paese chiamato Guardiagrele nella provincia di Chieti. Un piccolo paese ma che storia millenaria, che artigiani di eccellenza (fabbri, maniscalchi, intagliatori e ceramisti...), che ospitalità regale! La nostra inviata Clelia Arduini si è persa tra i laboratori, le viuzze, le piazzette, tra le grandi architetture religiose e civili del borgo abruzzese e si è presto ritrovata sentendosi a casa. Quegli artigiani guardiesi, attaccati al luogo, estimoni viventi di una grande comune cultura e talento, appassionati esecutori di antichi disegni e forme, erano la testimonianza che sugli Appennini non tutto è andato perduto. Chi ha resistito, nonostante tutto e tutti gli ostacoli e le difficoltà, forse non ha puntato sulle carte sbagliate e potrebbe avere la fortuna di vedere i suoi territori rifiorire e trovare un equilibrio tra sviluppo e tradizione che sia una giusta formula della sostenibilità.
Buona lettura!
Silvestro Serra
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