di Clelia Arduini
I musei italiani ricevono sempre meno finanziamenti, eppure oltre un quarto dei visitatori non paga il biglietto. Ma c’è chi sostiene che tutti quelli statali dovrebbero essere gratuiti, come in Inghilterra. E allora: chi ha ragione? Che cosa occorre fare?
Che cos’hanno in comune un giornalista, un 66enne e una guida turistica? Semplice, possono entrare gratis nei 424 musei e siti archeologici statali d’Italia insieme a dipendenti del ministero dei Beni culturali, docenti di architettura o di belle arti, interpreti turistici, portatori di handicap e ragazzi con meno di 18 anni. Una gratuità stabilita per legge che, comprese le riduzioni per i giovani fino ai 26 anni e gli insegnanti di ruolo delle scuole statali, coinvolge quasi il 25 per cento di quei 40 milioni di visitatori che ogni anno visitano i musei e siti archeologici italiani. Con punte del 50-60 per cento in luoghi che, come Villa Adriana, i templi di Paestum, la Reggia di Caserta, sono classiche mete scolastiche. Tra non paganti e paganti a metà si raggiunge la quota di circa 18 milioni di persone che, qualora pagassero il ticket a pieno prezzo, farebbero incassare indicativamente 40 milioni di euro in più all’anno. Non poco se si considera che nel 2011 gli introiti da biglietteria dei musei statali sono stati circa 110 milioni di euro. È una cifra non trascurabile vista la contrazione delle risorse a disposizione del Mibac passate da 2,4 miliardi del 2000 agli attuali 1,8: lo 0,11 per cento del Pil.
Ma è giusto far cassa con i musei? O piuttosto l’ingresso dovrebbe essere gratuito per tutti per una questione di civiltà? Magari procedendo a una razionalizzazione del nostro enorme sistema museale e archeologico (i primi dieci istituti statali attraggono il 36 per cento del pubblico complessivo ricavando oltre il 75 per cento degli introiti), definendo strategie mirate alle esigenze locali e puntando ad accrescere l’indotto turistico? «Credo di più alla seconda politica» dice Vittorio Emiliani, scrittore, giornalista e presidente del Comitato della bellezza che riunisce alcune delle principali associazioni ambientaliste italiane. «Anni fa Tony Blair chiese al suo ministro: “Quanto ci rendono i biglietti d’ingresso nei musei?” E quello gli fornì una cifra pari a 200 miliardi di lire. “Ma allora, rispose, glieli diamo noi...” (il leggendario sir Denis Mahon ha lasciato alla National Gallery di Londra una serie di quadri del Seicento emiliano a un patto: verranno restituiti se si istituirà un biglietto d’ingresso). Risultato? Questa gratuità ha prodotto un 51 per cento di incremento degli ingressi nei musei statali inglesi e ciò ha significato aumentare il giro d’affari, grazie al crescere di luoghi come caffetterie, ristoranti, merchandising, alberghi e librerie» spiega Emiliani.
«I musei non sono né macchine per guadagnare, né semplici ornamenti come collane o orologi che si possono acquistare» afferma l’archeologo e critico d’arte Salvatore Settis. «Parafrasando l’articolo 9 della Costituzione, i musei hanno un altissimo valore educativo e rappresentano un fronte comune tra tutela del patrimonio culturale e scienza. Mi chiedo: è giusto pagare un biglietto per entrare in un luogo di educazione civica che ci insegna come abbiamo costruito la nostra identità attraverso i secoli?».
Altro appassionato sostenitore della cultura gratis per tutti è Vittorio Sgarbi che ai tempi in cui era sottosegretario al ministero dei Beni culturali propose l’abolizione del ticket museale. «Se si può leggere gratuitamente in biblioteca Machiavelli perché si deve pagare per ammirare Botticelli? I musei e la cultura nazionale devono essere gratuiti, il loro compito è quello di educare al bello e farci diventare cittadini migliori. Casomai si potrebbe come valore simbolico far pagare un euro affinché i visitatori, con maggior spirito civico, si sentano motivati a contribuire alla bellezze del proprio Paese» sostiene Sgarbi.
A favore della gratuità dei musei è anche il 58 per cento degli italiani intervistati per il dossier L’arte di produrre arte, imprese culturali al lavoro, pubblicato dall’associazione Civita. Un dossier che evidenzia come per il 36,8 per cento degli intervistati il costo del biglietto rappresenti comunque un problema. Effettivamente, se la famiglia è composta da 4 persone e il ticket museale costa 8 euro (e magari c’è un surplus di 3 euro perché c’è una mostra) e in più si prendono le audio-guide che costano tra 2 e 4 euro, ecco che la gita di conoscenza arriva a costare quasi 15 euro a testa (senza considerare la prenotazione che costa 1-2 euro anche a chi ha diritto alla gratuità, e viene intascata per lo più da società concessionarie private). «Ma chi dice che non mette piede nei musei per il prezzo del biglietto non si rende conto di quanto costano in Italia altri beni e servizi» sottolinea Antonio Natale, direttore della Galleria degli Uffizi, la cui visita costa 6,50 euro.
Certo, sarebbe un segno di grande civiltà rendere gratuita la cultura così come lo è l’istruzione, ma per ora possiamo rinunciare ai soldi delle entrate museali? In alcune regioni lo fanno: così su 424 strutture statali ben 208 sono gratuite. In Friuli, per esempio, 10 delle 13 strutture museali statali sono gratuite, in Calabria si entra gratis in 10 su 15. Solo l’Umbria ha 11 siti tutti a pagamento. «Ogni forma di gratuità è deleteria – dichiara Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, 492mila visitatori nel 2012 – perché non consente di percepire le cose nel loro valore e quindi di apprezzarle con consapevolezza».
«Altro che gratuità, qui crolla tutto. Nel 2012 per la prima volta da oltre un decennio sono diminuiti gli italiani che vanno a teatro (- 8,2 per cento), quelli che visitano le mostre (- 6 per cento) e che vanno ai concerti classici (- 23 per cento). Urge un cambiamento epocale della struttura statale che finora si è mostrata incapace di gestire il nostro patrimonio culturale» dice Roberto Grossi, presidente di Federculture. «I casi dei crolli di Pompei, dei furti alla biblioteca Gerolamini, dei Bronzi di Riace e Domus Aurea, sono solo alcuni degli esempi. Basta con il dominio della politica sulle nomine dei direttori dei musei e degli istituti culturali: è il mercato che deve scegliere manager di comprovata bravura, che siano responsabili dei risultati ottenuti» prosegue Grossi.
Intanto il Mibac, orientato dalle risposte di 7mila cittadini che hanno partecipato al sondaggio Il Museo che vorrei, sta studiando delle opzioni per razionalizzare le categorie che godono della gratuità. «Non si parla certo di ridurre il costo dei biglietti nei musei statali» spiega Anna Maria Buzzi, direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. «Anche perché il prezzo è già contenuto, ma di rivedere le politiche sulle gratuità di alcuni giorni festivi (come S. Valentino, festa della donna, 1º maggio), prevedere l’ingresso gratuito nell’ultima domenica del mese e, oltre a confermare la gratuità sino ai 18 anni, proporre un biglietto ridotto dai 18 a 29 anni». Un’altra idea è quella di far pagare, pur con delle appropriate riduzioni, anche gli over 65enni che oggi entrano gratis. Peccato però che sempre l’Istat ci dice che nel 2012 i maggiori consumatori di visite museali sono proprio i giovani.
Allora, come la giochiamo la partita del ticket? «Considerare la gratuità o il pagamento per l’accesso ai musei come soluzioni alternative, quasi che si trattasse di una misura buona o cattiva, è riduttivo. È certo che in un Paese dove negli ultimi 10 anni si è diminuito del 40 per cento l’investimento in beni culturali e nel quale si spende per la cultura la stessa cifra che per le auto blu, è sempre più difficile convincere i cittadini che l’accesso ai beni culturali se lo devono pagare. Sarebbe molto più facile se ogni bene culturale venisse vissuto dagli stessi come un bene di appartenenza condiviso (e quindi conservato, protetto e valorizzato) nell’ambito di una comunità impegnata a sostenerne il valore» spiega il presidente Iseppi. «Uscendo da un ragionamento teorico, la tendenza alla gratuità d’accesso è da privilegiarsi perché è indirettamente espressione del riconoscimento al diritto alla cultura: quando le strutture sono autosufficienti, questo è possibile sia che esse vivano di contributi pubblici che di risorse private. Basta volerlo» prosegue Iseppi. «Quando questa opzione non è praticabile, non rimane che il ricorso a motivate tariffe d’accesso differenziate, a meno che non si creda che solo i privilegiati possono godere dei beni o delle opportunità offerte dal patrimonio culturale» conclude il presidente.
L’unica cosa certa, finora, è che la Settimana della cultura è stata cancellata. Sembra dunque che i nostri beni artistici stiano diventando ogni giorno che passa più ingombranti e stabilire una cifra (o nessuna) per ammirarli appare una questione di immane portata. Il problema però siamo noi come Paese: da anni abbiamo smesso di progettare il futuro attraverso la cultura e la bellezza.