di Maria Pace Lucioli Ottieri
Le riflessioni sul viaggio e su tutti i possibili altrove della scrittrice Maria Pace Lucioli Ottieri, che dalle sue peregrinazioni in Africa e in India ha tratto ispirazione per i suoi romanzi e non solo
«Altrove»: ecco una parola che non si sente pronunciare quasi più. Forse perché un luogo che deve rimanere irraggiungibile per continuare a essere pensato, sognato, immaginato non appaga più in un mondo in cui i desideri devono essere esauditi, le mete raggiunte e i sogni realizzati subito o al più presto. Si può però portare l’altrove con sé, luogo interno, stato d’animo, un vento che di colpo trascina lontano, e allora lo si scopre tra le strade della propria città, in un paesaggio noto che all’improvviso si accende per una voce, un odore, una luce. Il vero mezzo di trasporto è l’immaginazione senza la quale non c’è distanza capace di trasformarsi in qualcosa che resti dentro di noi: i viaggi funzionano per me solo se la scintilla è già scoccata, qualcosa da cercare, qualcuno da incontrare, un’idea, un’ipotesi covata a lungo o solo intuita da verificare sul campo, non importa se si troverà tutt’altro, la serendipità, la felice scoperta per caso, è il vero obiettivo di ogni ricerca.
E i viaggi sono prove di resistenza: sono in grado di vivere, anche solo per un periodo, come gli abitanti di un villaggio africano o indiano? Resisterò un mese, sul sedile posteriore di un motorino, nella traversata dell’Alto Volta? Si chiamava ancora così il Burkina Faso, all’epoca di questo viaggio che diventò Amore nero, il mio primo libro. Ho sempre cercato piccole iniziazioni dalle quali tornare trasformata, almeno per un po’, messe alla prova che mi costringessero a togliere al mio modo di vivere e di pensare quell’evidenza che dava ad esso il fatto di non conoscerne altri, e a nuotare in uno spazio e in un tempo nuovi. Spaesata, ritrovavo il mio centro nella forza ipnotica dell’Africa (e più tardi dell’India), nell’umido calore prenatale della costa, nel secco giallo e croccante della savana, nella vita nuda del Sahel, nell’odore di terra e fumo dei villaggi la sera, quando si accendono i fuochi. In mezzo al deserto del Sahara, con lo sguardo e i piedi sulla sabbia a perdita d’occhio, sentivo di camminare sulla superficie curva del pianeta, sulla sua pelle.
Con il passare degli anni sono rimasta fedele al principio del viaggio scomodo e avventuroso, all’inseguimento di una suggestione, e rigorosamente nelle case di amici o amici di amici del luogo, a uno stare che si avvicini il più possibile a una simulazione dell’abitare. Ma le forze e la resistenza, inevitabilmente, diminuiscono e i luoghi, specie nei Paesi che un tempo si dicevano del Terzo Mondo, sono molto cambiati. Resta la smania di paesaggi grandiosi, assoluti, originari, ma si insinua sempre più il desiderio di bellezza, armonia, ombra e frescure vicine. Ho scoperto, come molti in questi anni, l’andare a piedi, percorrere con i propri passi quello che può restare per sempre solo visto, o intravisto, alla velocità di un’automobile.
L’immaginazione cammina sempre con te, ti senti un pellegrino medievale capace di qualunque fatica, scruti la natura per capire di che cosa potresti nutrirti, cicoria, trifoglio, ciliegie, more di gelso, asparagi selvatici, castagne. Sentieri persi e ritrovati, chiese bellissime nel cuore di paesi desolati, svuotati, castelli alteri, chiazze di natura preservata o rinnovata, frutto di cura, di attenzione, i giardini per esempio, in Italia ce ne sono molti, bellissimi e sconosciuti, secolari o inventati di sana pianta, oasi dove ogni civiltà preserva il suo meglio, anche la nostra che sembra, certi giorni, per sempre tramontata.