di Barbara Graham - National Geographic Traveler | Fotografie di Clay Mclachlan
A quarant'anni dall’estate dell’amore una ex hippy torna sulle spiagge, nei boschi e nei canyon che la videro adolescente figlia dei fiori tra Topanga, Big Sur e Trinity
Non mi ero mai trovata prima così vicina a uno sparo. O a un orso. Per me, una ragazza di New York, madre di un bambino di cinque mesi, quell’orso era una minaccia terrificante quanto Godzilla. Fortunatamente, non ci attaccò; ma divorò la copertura imbottita di un finestrino del nostro camper prima che la fucilata di quello che allora era mio marito lo facesse fuggire nella foresta. Eravamo nel 1972. Vivevo su a nord, in California, nella contea di Trinity, con mio figlio Clay e Brian, suo padre. Pochi mesi dopo l’incidente con l’orso, fuggimmo anche noi. Adesso, 41 anni dopo, Clay – ora fotografo professionista – e io siamo in cerca della nostra vecchia casa nella foresta di Trinity; come pure degli altri avamposti hippy in giro per la California. Dove io, poco più che ventenne, ero andata per cercare di trasformare me stessa, giovane ansiosa, in fuga dal college, in una divinità terrestre dallo spirito libero.
Quella di “tornare alla terra” – dalla quale peraltro non provenivo... – era stata un’idea di Brian. In quei giorni ero così smarrita che mi ero attaccata ai sogni del mio compagno come una patella allo scoglio. Che cosa mi passava per la testa quando ho accettato di andarmi a cacciare nei boschi di Trinity? E con un bambino, poi? Ma non ho pensato che avremmo potuto morire di stenti se avessimo tentato di passare l’inverno nella nostra capanna primitiva senza riscaldamento, elettricità, acqua corrente?
Oggi però è un altro l’interrogativo che m’incalza: chi sarei ora, se fossi rimasta?
La prima tappa nel mio viaggio californiano, oggi come allora, è il canyon Topanga. Anche se è a un tiro di schioppo da Los Angeles, lungo l’autostrada costiera del Pacifico, mi sembra di entrare in una dimensione alternativa, mentre la nostra auto avanza serpeggiando lungo il nastro d’asfalto che conduce nel cuore del canyon. Visto da certi punti, Topanga oggi è molto simile a com’era quando ci sono arrivata all’inizio degli anni Settanta, quando si era già guadagnato il soprannome di “Haight Ashbury del Sud” (quello fra la Haight e la Ashbury Road, l’incrocio di San Francisco considerato l’epicentro della cultura hippy negli anni Sessanta e Settanta, ndt). Inoltre, Topanga conserva ancora la sua aura di vecchio West. Clay è sbalordito. «Sembra di stare a mille miglia da Los Angeles, e non a trenta». La sua selvaggia topografia ha plasmato il suo destino, trasformandolo in una meta di personaggi che si potevano solo definire come iconoclasti: solitari di sinistra, beatnik, artisti, gente di Hollywood sulla lista nera, hippy, ambientalisti, fino agli ultimi seguaci della New Age. Tutti attirati dall’amore per la natura. È qui che mi sono innamorata per la prima volta della California: il ruggito dell’oceano alla base del canyon, il profumo di salvia nell’aria, le grandi querce contorte sulla costa, il tappeto di fiori selvatici che ricopre le colline. E il cielo vasto che ti accoglie come in una culla capovolta.
Appena arrivati ci mettiamo alla ricerca del piccolo gruppo di sgangherati ripari dove Brian e io abbiamo vissuto per un anno. Che è poi il luogo in cui Clay è stato concepito (ma quando vi accenno, lui mi fulmina con una di quelle occhiate tipo mamma-non-ne-voglio-sentir-parlare...). Troviamo il posto, ma non ci sono più le capanne. Ci resto male vedendo che un ranch recintato ha preso il posto del nostro rifugio hippy. Ma mi basta essere qui per tornare indietro nel tempo, agli anni Settanta. Ho una visione di me stessa – jeans rattoppati e un top con le spalline legate dietro al collo, i capelli arruffati al vento – mentre mi inerpico lungo il letto del ruscello fino alla punta più alta della nostra montagna. O mi chino su un pentolone di cera bollente nella nostra capanna, per fare magliette batik che nessuno voleva comprare. Non avevamo nulla, solo qualche mobile essenziale, un letto, un paio di padelle. Non ce ne importava. Eravamo liberi di reinventare noi stessi e il mondo come volevamo. E per un istante, a Topanga, lo credetti possibile.
La tappa successiva del nostro viaggio ci porta oltre 250 miglia a nord, verso la costa centrale e la regione di Big Sur: luoghi rocciosi e selvaggi dove sono passata, ma non mi sono fermata, durante i miei primi anni in California. Poche miglia a nord di Hearst Castle arriviamo a Piedras Blancas, una spiaggia dove migliaia di elefanti marini sono distesi immobili. Sembrano morti, ma in realtà è la stagione della muta, e io in un certo senso mi identifico con queste creature. Anch’io in questo viaggio sto perdendo uno strato del mio passato. Diversamente da Topanga, che può sembrare un luogo lontano dalle strade battute pur essendo in realtà vicinissimo a Los Angeles, Big Sur è davvero tagliato fuori da ogni contesto urbano: ed è la ragione per cui questa striscia di 90 miglia di costa californiana è stata notoriamente amata da tante persone, da Henry Miller fino a Jack Kerouac. Ma il suo isolamento e la forza della natura non lo rendono un luogo ospitale: le strade sono soggette alle mareggiate, spesso manca l’energia elettrica e il pericolo di incendi è altissimo. Come tanti della mia generazione, ho sognato di fermarmi a vivere a Big Sur: ma il posto che voglio davvero mostrare a Clay, un luogo per me sacro, è Pfeiffer Beach. Non proprio segreta ma neanche superaffollata, questa spiaggia con le sue frastagliate cavità rocciose, che si spalancano come porte sull’oceano, è una delle più belle della costa occidentale. Ci sono forti raffiche di vento quando arriviamo, ma ci ripariamo ai piedi delle scogliere, al ritmo primordiale delle ondate che senza sosta spazzano le rocce. Uno spettacolo grandioso che mi ricorda quanto la mia persona sia minuscola e quanto veloce fugga il mio tempo sulla terra.
Non mi trasferii a San Francisco fino al 1975. Ma avevo fatto una sorta di pellegrinaggio in città già nel 1967, l’inverno che precedette l’Estate dell’Amore (evento in cui, nell’estate del 1967, oltre 100mila persone si radunarono all’incrocio fra Haight Road e Ashbury Road a San Francisco, ndt). L’unico modo per rivisitare la San Francisco di quella stagione è fare un giro sul Magic Bus, uno spettacolo su ruote dipinto a colori psichedelici, che lascia dietro di sé una scia di bolle di sapone e cerca di condurre i passeggeri a ritroso nella città degli anni Sessanta. Al suono di successi musicali dell’epoca, come San Francisco di Scott McKenzie («Se stai andando a San Francisco, assicurati di avere fiori nei capelli»), e brani dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane, si visitano i luoghi “icone” dell’epoca: la libreria City Lights di Ferlinghetti, l’originale Fillmore West (negozio di dischi ora concessionario di auto), il Golden Gate Park, un grande murale di Janis (Joplin), Jerry (Garcia) e Jimi (Hendrix). Quando raggiungiamo l’incrocio fra la Haight e la Ashbury Road, la guida registrata esclama: «Essere qui negli anni Sessanta era come trovarsi al centro dell’universo». E rifletto che quel tempo idealizzato in cui ancora mi identifico è oggi un pezzo di storia da visite guidate.
Da San Francisco proseguiamo verso nord lungo la High- way 5. Siamo in cerca della famosa capanna nella contea di Trinity dove abbiamo vissuto quando Clay era un bambino. Non so bene perché, ma ho bisogno di rivisitare il luogo in cui, all’età di 24 anni, mi resi conto che vivere in un ambiente remoto, non importa quanto bello, non era cosa che faceva per me. Appena imbocchiamo la Highway 299 verso ovest mi accorgo che, di tutti i posti che abbiamo visitato in questi giorni, Trinity è quello che è cambiato di meno. Non c’è ancora un solo semaforo in tutta la contea. Con le sue fitte foreste, i picchi innevati, i tanti laghi e il fiume precipitoso che l’attraversa, Trinity mostra pochissimi segni di sviluppo. La caccia alla nostra vecchia capanna si rivela però subito come un’impresa difficile. E sento che senza questo dettaglio il nostro viaggio sarà incompleto. Ma a cena in un ristorante di Weaverville, il centro più grande della contea, incontriamo Megan Curran, una donna della mia età. Che sentendoci parlare di Topanga ci racconta che anche lei era da queste parti nel 1973, con un amico, e che da allora non si è mai mossa da qui. Improvvisamente, mi sembra di vivere uno di quei rari momenti in cui si prova la sensazione – incontrando qualcuno – di vedere come saremmo potuti diventare, se ci fossimo fermati in un determinato posto. E, per un caso ancora più raro e fortunato, un’amica di Megan abita proprio vicino al terreno dove ancora si trova la nostra capanna. Al mattino successivo ogni frammento sembra ricomporsi. E sebbene siano passati 41 anni il luogo è al tempo stesso stranamente familiare e sconosciuto: la strada polverosa, il ruscello impetuoso, lo stretto ponticello per raggiungere la proprietà; la capanna stessa, a forma di tepee. È strano trovarsi qui. Quando ero una giovane madre, non abituata a vivere senza comodità, non ero in grado di apprezzare la bellezza del luogo. Eppure, oggi non ho alcun rimpianto: né per la mia vita qui, né per l’essermene andata. Come Topanga e le altre tappe lungo il nostro itinerario, Trinity è stata una tappa del mio viaggio alla ricerca di me stessa. E del mio posto nel mondo.