di Tino Mantarro | Foto di Alessandro Grassani
In Friuli, nella piccola val Resia, una orgogliosa comunità di origine slave cerca di difendere il paesaggio della sua valle e far riprendere le attività produttive all'interno del territorio del Parco Naturale delle Prealpi Giulie.
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Chissà perché, ma addentrandosi nelle Prealpi Giulie viene in mente Zoff. Dino Zoff, il portiere della Nazionale. Sarà che è anno di Mondiali, e qualche timido tricolore sventola ancora dai balconi. Sarà che Zoff è di famiglia contadina: parla poco o niente; lavora tanto e bene. E soprattutto è friulano, anche se di Mariano del Friuli, Gorizia. Da ultimo uomo è abituato a contare solo su stesso, sulle sue capacità di sacrificio, senza lamentarsi, rispettando il prossimo e l’avversario. Ecco, quando incontri la gente che ha scelto di vivere nei borghi della val Resia, nella frazioni della val d’Aupa, nella bella Venzone, tornano alla memoria tutte le qualità umane di Dino Zoff. Uno che quando hanno obbligato i portieri a indossare una maglia non nera c’è rimasto male e ha scelto quella grigia. Più elegante, più austera.
Eleganti e austere sono anche queste valli che fanno parte del Parco naturale delle Prealpi Giulie, uno dei due parchi regionali friulani. «Pensati nel 1978, dopo il terremoto, sulla carta dovevano essere 11, ma ne sono stati istituiti solo due» racconta il direttore Stefano Santi. «Ai tempi i cacciatori hanno protestato e il parco è stato limitato alle zone sommitali, intorno alle vette del Canin, la più grande formazione carsica della zona» spiega Santi. «Oggi le cose sono cambiate: il parco è ben integrato e opera per promuovere tutte le attività, anche quelle che non sono all’interno dei nostri confini purché si trovino sul territorio dei Comuni. Nostro compito non è solo tutelare la natura, ma anche far riprendere le attività agricole strategiche per la salvaguardia del paesaggio e lo sviluppo turistico» sottolinea Santi. Certo, il compito è arduo.
Se stambecchi, linci e perfino orsi sono tornati, altrettanto non si può dire dei contadini. «Le attività agricole sono residuali. Un tempo i versanti erano tutti pascoli e stavoli – come chiamano le malghe da queste parti –, ma adesso il bosco ha piano piano riconquistato quasi tutto» racconta Marco Micelli, resiano, impiegato all’ufficio tecnico del parco. Le malghe rimaste son poche. Una di queste, malga Coot, l’ha risistemata l’Ente parco e oggi è un agriturismo con sei posti letto, 23 mucche e un ristorante estivo gestito dall’energica Simona Siega, che a dirla tutta non è neanche resiana, ma di Venzone. «Qui a far formaggio non c’è rimasto nessuno: fino a due anni fa avevamo un anziano casaro resiano, poi ho dovuto fare un corso e imparare a fare latteria e ricotte» racconta mentre spezza la cagliata. Da qui la vista spazia lontano, fino alle Dolomiti Friulane. Dall’alto si ammira il paesaggio: boschi di faggi e abeti fin dove arriva la vista. I campi coltivati sono pochi: nonostante i paesi siano sui 500 metri non ci sono né vigneti né meleti.
Un’inversione di tendenza si registra in questi ultimi anni grazie all’associazione Rosajanski Strok che raccoglie i produttori dell’aglio rosa di Resia, divenuto presidio Slow Food dal 2008. «È una varietà con un aroma dolce e senza quell’odore acre degli altri agli» spiega la signora Vilma Quaglia, vicepresidente dell’associazione. «I semi sono quelli che usava mia mamma: adattati a questi terreni con secoli di cambiamenti per non andare mai a male quali che fossero le condizioni. Li piantiamo in novembre, rispettando il ciclo lunare, e raccogliamo a metà luglio, utilizzando solo tecniche biologiche» racconta mentre raccoglie gli ultimi scapi d’aglio nel suo appezzamento vicino al paese. «Gli scapi sott’olio li trasformiamo grazie a un’azienda della zona: come per gli agli non riusciamo a soddisfare la richiesta». Per ora tutto è ancora a livello di microagricoltura: ma vien da chiedersi se si potrebbe vivere coltivando l’aglio resiano. «Bisognerebbe provarci. Ormai nell’associazione siamo in trenta, ma nessuno di noi lo fa per mestiere. Più che altro per ora lo facciamo per tenere in vita queste nostre montagne».
Tutto ciò ha contribuito a preservare tradizioni folcloriche che rispetto al resto d’Italia sono assai vive. «Se vuoi capire qualcosa di questi posti devi venire a Carnevale: lì cogli la vera anima della nostra gente» spiega Patrizia Zanetti mentre in abito tradizionale mostra i balli tipici. Chi non riesce a venire per Carnevale non deve mancare gli spettacoli del gruppo folcloristico Val Resia, il più antico d’Italia, in attività senza sosta dal 1838. «Il gruppo serve solo per mostrare agli altri quel che facciamo e portare le nostre tradizioni fuori dalla valle. Non deve salvaguardare alcunché: qui tutti sanno ballare e cantare, fin da bambini. Si balla ai matrimoni, si balla a Carnevale, lo impari a casa e non lo dimentichi più. E poi è un modo per stare insieme, per fare gruppo tra giovani e non, per sopravvivere alla disgregazione, visto che c’è poco lavoro e tanti sono costretti a muoversi» aggiunge. Friûl dûr, come una volta. Quando i valligiani partivano per andare a fare gli arrotini in Europa, come racconta un museo a Stolvizza, frazione della val Resia da cui padri e figli partivano in bicicletta per affilare forbici e coltelli dell’impero asburgico.
Scendendo da Dordolla si allunga fino a Venzone, città murata di origine romana, di gran lunga il paese più bello della zona. «Dopo il terremoto, su pressione della comunità internazionale si è deciso di effettuare una demolizione controllata per poi poter ricostruire pietra per pietra» spiega Aldo Di Bernardo dello Iat Venzone. Come successo a Dresda, anche la piccola Venzone e il suo sontuoso Duomo sono tornati a splendere come prima, anche se i giorni del 1976 rivivono nel museo Tiere Motus, dove si va per non dimenticare l’evento che ha cambiato la storia friulana. Si incrociano tanti stranieri, a Venzone. Scendono lungo la ciclabile Alpe Adria e in tanti decidono di fermarsi qui. Possono rappresentare l’occasione giusta per promuovere queste valli nascoste.
«Quando percorri l’Autostrada per Tarvisio non te ne accorgi. Devi arrivare per caso, prendere tempo, poi te ne innamori» racconta Kaspar Nickles, austriaco della Carinzia arrivato qui nove anni fa. Con Marina, friulana, ha messo su casa a Dordolla, frazione da 50 abitanti di Moggio Udinese, nella stretta val d’Aupa. In questi anni Kaspar è diventato il vero animatore del borgo. «Abbiamo creato un festival di land art, Anima Montis, una meditazione artistica tra natura e cultura in collaborazione con l’Università di Klagenfurt. Nulla di grande, tutto piuttosto informale, ma per far vivere queste terre bastano piccoli numeri» racconta mentre assaggia il brovedar – tipica zuppa di rape fermentate – al bar Fabio, ristorante della frazione. Kaspar è un vulcano: «Tanti progetti, ma manca il tempo per realizzarli». È merito suo se questa frazione esiste nelle mappe turistiche. «Per ora arrivano soprattutto austriaci: fuggono da montagne tutte uguali, case di legno e i gerani ai balconi. Vogliono vivere qualcosa di diverso, sentieri meno battuti, luoghi più rilassati. E questi lo sono». Laureato in agronomia, vorrebbe far rivivere l’agricoltura di montagna, ma è dura. «Ho pecore e campi di patate che mando avanti con l’aiuto dei woofer, i ragazzi alla pari dell’agricoltura». Christopher Thompson è tra questi. Londinese, regista, è venuto qui per tre settimane e si è fermato per tre anni. Comprata casa, pensa di fare un film per raccontare queste valli ultime. Dino Zoff non sa chi sia, ma pazienza. Se si è innamorato di queste valli, c’è un po’ di Zoff anche in lui.