di Vittorio Emiliani
L’accogliente museo archeologico della romagnola Sarsina conserva resti romani di grandiosa bellezza. Come il sepolcro di Rufo, che sprofondato integro nello stagno di Pian di Bezzo, si è preservato per secoli dai barbari. Antichi e moderni...
Sarsina mi era nota anzitutto come patria dell’irridente, sanguigno e prolifico commediografo Tito Maccio Plauto sceso da quell’Appennino a Roma nel III secolo avanti Cristo. E anche come la sede di famosi esorcisti che nella bella cattedrale romanica esercitavano col collare di S. Vicinio i loro riti a volte spettacolari. Ci tornai con mia moglie un’estate di qualche anno fa. Fuori dalle mura ci accolse la bella tomba a edicola di un notabile importante, Obulacco, rinvenuta a Pian di Bezzo e rimontata sulla strada nel 1927 quale monumento ai caduti. Stranezze della storia. Girammo un po’ per le strade di questa cittadina di origine umbra, cooptata dai Romani dopo aver concorso in forze coi propri armati alle guerre galliche laggiù nella pianura romagnola, dove alcune proprietà agricole sono ancora segnate dalle centurie. Tanti lotti quadrati assegnati ai veterani della conquista militare del territorio dove passava il confine strategico del Rubicone.
A un certo punto proposi di andare a visitare il Museo archeologico. Mia moglie riluttava. «Saranno le solite stele funerarie…». Svoltando, scorgemmo dietro una vetrata del museo una massa biancastra, e la cosa ci intrigò.
Al museo c’era un accogliente custode/bigliettaio/guida con modesti quanto preziosi ciclostilati. In effetti nelle prime sale si allineavano lapidi e stele funerarie. Alcune peraltro con indicazioni curiose di antiche corporazioni: mulattieri, fabbri, centonari (vigili del fuoco dell’epoca).
Poi, all’improvviso, una tomba straordinaria, un grande cubo di marmo tenero e luminoso, come cesellato da mani sapienti, davanti a un pavimento musivo: il sepolcro di Publio Verginio Peto. Appresso, in una apposita sala, un grandioso mosaico pavimentale, messo a parete, con al centro Dioniso su una biga trainata da due tigri: una divertente, movimentata festa in suo onore risalente al periodo in cui Sarsina, al legname dei boschi e alle greggi, aveva aggiunto il controllo dei traffici sulla via più diretta da Roma al Porto di Classe. Merci e profitti correvano nella città fra la valle del Savio verso l’Adriatico e la valle del Tevere verso la capitale.
Ma ecco, quasi all’improvviso, in un vasto ambiente pieno di luce, l’imponente tomba a edicola, color miele, della famiglia di Rufo, con le cariatidi e una piramide dal pinnacolo orientaleggiante, al pari di certe architetture barocche del misterioso Borromini a Roma. Dove tuttavia non ho visto un sepolcro a edicola così perfettamente conservato, abbagliante nella sua morbida bellezza. Una ragione c’è: la solenne tomba di Rufo era sprofondata integra nello stagno di Pian di Bezzo e da lì è stata riportata alla luce molti secoli dopo, preservandola dai barbari. Antichi e moderni.
Da allora dico sempre che quel museo, quella tomba di Asfionio Rufo, valgono bene un viaggio.
VISITIAMOLO CON IL TOURING il prossimo 4-5 ottobre, in occasione della tappa della Penisola del Tesoro.
Info: ProntoTouring, tel. 840.888802 (selezione 3).
Museo archeologico nazionale di Sarsina, via Cesio Sabino 39, tel. 0547.94641; www.comune.sarsina.fo.it/ museoarch/museo.htm.
Orario invernale (da ott fino al 14 giu): 8.30-13.30, mar e gio anche 15-18, lun chiuso, ingresso 3 euro.