ESCLUSIVA WEB. L'intervista all'architetto Tadao Ando

L'incontro con l'architetto Tadao Ando
Lei pare avere un rapporto particolare con l’Italia. O, meglio, con il Veneto.
Il mio primo viaggio a Treviso, erano gli anni Settanta, è stato motivato dal desiderio di visitare la Tomba Brion di Carlo Scarpa (commissionata da Onorina Brion Tomasin, vedova di Giuseppe Brion, il fondatore della Brionvega – nda). Mi colpì il senso di bellezza e serenità che quelle campagne evocavano, era molto diverso dall’ambiente rurale giapponese che conoscevo. E così, quando Luciano Benetton mi affidò l’incarico – un cosa per me inaspettata in quel momento – colsi l’opportunità per due motivi. Mi trovavo, in primo luogo, immediatamente in sintonia con l’idea che animava il progetto: creare un nuovo luogo che facilitasse lo studio dell’arte, del design e della cultura per giovani da tutto il mondo. E poi avrei avuto il modo di studiare l’architettura veneta.
Palladio & co, ville, giardini e corsi d’acqua...
E' un patrimonio ricco – coi capolavori di Palladio, sì, un maestro del manierismo – che tutti in architettura riconoscono. Io l’avrei visitato e questo fu il primo stimolo ad accettare l’incarico di Fabrica.
Cui poi sono seguiti altri, a Venezia.
Sì, tre progetti museali: Palazzo Grassi nel 2006, Punta della Dogana nel 2009 e Il Teatrino nel 2013. I prossimi in Italia, in corso, saranno a Milano e Bologna.
Torniamo a Villorba, il concept di Fabrica sembra formarsi dal superamento di due dualismi (e dalla loro composizione): vecchio/nuovo e dentro/fuori.
Il nucleo dell’idea di partenza del progetto l’ho concepito pochi istanti dopo essere arrivato: una struttura che si fondesse col paesaggio, annullando le barriere che, separandola da essa, la potevano definire. E, soprattutto, mantenendo intatta l’aura di calma serena.
Ci sono diversi modi per interpretare una barriera e per “annullarla”.
Infatti. Io, per esempio, on ero autorizzato però edificare nulla al livello del terreno, la parte nuova dell’intervento architettonico avrebbe dovuto essere interrata. Una sfida, ovviamente: andava resa non solo funzionale, creando le giuste condizioni. Ma attrattiva.
Non solo dentro/fuori, dunque. Ma sopra/sotto come nuova dimensione del dialogo tra struttura pre-esistente e nuovi elementi?
Questo dialogo, una sorta di “risonanza empatica”, è il tema portante di tutto il mio intervento. Ed è affidato all’acqua: i giardini acquatici fungono da zona “cuscinetto”, di transizione e connessione.

E le connessioni tra le diverse aree interne? Fabrica è un luogo di lavoro in cui l’esigenza di collaborazione tra aree (e spazi) diversi è importante come quella di focus distinti, area per area
Esatto, abbiamo puntato molto sui volumi di connessione tra i vari spazi. Una necessità ancora maggiore quando si ha a che fare con vaste aree interrate. Passaggi e accessi sono stati ideati privilegiando le sequenze funzionali, determinando un intreccio tra esterno e interno, nuovo e pre-esistente.

A proposito di nuovo e vecchio: la scelta dei materiali prevede anche quelli tradizionali, non ruota solo intorno a cemento, acciaio e vetro
Quelli sono in effetti gli elementi che segnano tutta la mia attività architettonica. Ma a Fabrica le componenti di conservazione e restauro hanno determinato il ricorso ad altro, come mattoni tradizionali, cocciopesto e marmorino. Ho conosciuto eccellenti maestranze locali in stucchi e lavorazione della pietra e così quella ricchezza è entrata a far parte della mia attività architettonica. Lo si nota soprattutto nelle colonne, nelle pareti e sulle pavimentazioni.
Lasciare che un progetto si autodefinisca – entro certi limiti, come in questo caso – è forse un segno di vitalità dell’architettura.
Con Fabrica ho notato quanto l’architettura possa essere “fatta crescere” dagli stessi utilizzatori. È stato necessario tirare fuori molte energie chè dalla fine del progetto all’inizio dei lavori c’è stato uno stand-by di quattro anni. Un’occasione per riflettere, tra difficoltà e nuovi approfondimenti. Ma i risultati, credo, si vedono. Merito di tanti, uno su tutti: Eugenio Tranquilli, col, suo gruppo di lavoro. Gli sforzi e l’amore dello staff e dei vari residenti hanno nel tempo reso la struttura sempre nuova, più viva. Ritengo che sia esattamente questa la vera revitalization.