di Stefano Brambilla | Foto di Francesco Tomasinelli
Sette giorni in barca risalendo il Rio Negro. Per vivere un'avventura fuori dal mondo
ESCLUSIVA WEB - Guarda a destra la presentazione di Stefano Brambilla, autore dell'articolo.
C’è un momento in cui capisco che cosa porta in sé l’Amazzonia. È quando Marcio, la nostra guida, ringrazia il serpente per non averci fatto del male. Lo fa mentre stiamo andando via, voltandosi ancora una volta verso la piccola creatura straordinariamente mimetizzata tra le foglie secche sul sentiero, sussurrando qualche parola in una lingua che non comprendo. Abbiamo messo il piede a pochi centimetri dalle sue spire, senza accorgerci della sua presenza: lui non s’è mosso. Se avesse avuto voglia di mordere una caviglia, sarebbero stati guai. Siamo a due giorni di navigazione dall’ospedale più vicino, in mezzo a una foresta che sembra non avere confini, e probabilmente non saremmo giunti in tempo: Marcio dice che il veleno di un Bothrops può agire in poche ore. Vedo per caso che Marcio parla al serpente, voltandomi anch’io per imprimere nella testa il luogo dove è avvenuto il fatto. È una scena di una potenza primitiva, ancestrale. Immagino il serpente che gli risponde, mentre i pappagalli chissà cosa commentano, lassù, sopra le volte degli alberi, molti metri più in alto di noi.
La foresta amazzonica ti strania, ti colpisce, ti stupisce. È ancora di più di tutto quello che hai sempre immaginato. Il cielo è più ampio, di giorno come di notte, quando le stelle sembrano ricoprire il mondo, vicinissime e splendenti come mai le hai viste prima. Gli alberi sono più fitti e intricati di qualsiasi bosco in cui tu abbia mai camminato, provi a capire cosa c’è dietro i tronchi davanti a te e non riesci, è subito una cortina impenetrabile, subito buio e mistero. E poi, i fiumi. Come laghi, come mari. Siamo partiti da Manaus, centro nevralgico dell’Amazzonia brasiliana, con una barca tutta biancazzurra che sembra uscita da un fumetto di Topolino o di Braccio di Ferro, le manca soltanto la ruota che gira in poppa e uno sbuffo di vapore. Il capitano Miguel, uno spagnolo innamoratosi dell’Amazzonia (e di un’indigena), ci porta per una settimana lungo i meandri del Rio Negro, uno dei grandi tributari del Rio delle Amazzoni. Perché non c’è altro modo per esplorare la foresta là dove vogliamo andare noi, verso nord, dove le scimmie non hanno mai visto l’ombra di un uomo: le strade sono inesistenti, a piedi faremmo pochi metri al giorno. No, bisogna risalire questo enorme fiume che si ramifica in decine di altri fiumi, laghi, rigagnoli, ora che poi è finita la stagione delle piogge e la foresta è allagata la terra non sembra neppure esistere più, è un tutt’uno di acqua e foresta, foresta e acqua, a perdita d’occhio. L’arcipelago delle isole Anavilhanas, non molto a nord di Manaus, è diventato un memorabile labirinto di alberi che spuntano dal fiume, dove le carte nautiche mentono e solo l’esperienza permette di capire quale dei cento rami del Rio Negro è un vicolo cieco e quale la strada verso la prossima tappa.
Non credo di aver mai vissuto per una settimana senza telefono, giornali, internet. Eppure è quasi un sollievo la loro assenza. Il mondo potrebbe esplodere nella terza guerra mondiale, ma dalla nostra barca biancazzurra tutto sembra così perfetto, sereno, pacifico. Anche perché dormiamo cullati dalle acque, mangiamo torte sopraffine cucinate dalla moglie di Miguel, riportiamo il nostro corpo (e la nostra mente) a ritmi dimenticati. Poi basta scendere a terra per ricordarci che la foresta non è affatto pacifica, che non sono tutte orchidee colorate e simpatiche scimmiette scodinzolanti. Durante una delle numerose escursioni nella foresta, lungo piste che Miguel e Marcio ritrovano chissà come, perse come sono in un paesaggio che ai nostri occhi sembra sempre uguale a se stesso, ci imbattiamo in una formica gigante, la tucandeira. Pare che il suo morso possa provocare uno shock anafilattico, le tribù indigene della foresta la utilizzano come prova di forza per i giovani che passano all’età adulta. La guardiamo stupefatti: una creatura così piccola con una forza così grande. Poco lontano, Marcio ci fa appoggiare la mano su un tronco per mezzo secondo (un solo istante!): come per magia, la mano diventa nera di minuscole formiche brulicanti. Ma l’enorme varietà vegetale – in un ettaro di foresta amazzonica vivono fino a 300 specie, una cifra dieci volte maggiore a quella dei boschi europei – permette anche di sopravvivere, sempre che si conoscano i segreti delle varie essenze: impariamo che esistono piante che contengono acqua, piante la cui resina bruciata permette di accendere un fuoco anche sul terreno bagnato, piante che guariscono da vari mali, piante addirittura che servono per non perdersi: una palma, se scossa, apre le sue foglie giallo fosforescenti, che lasciate per terra non marciscono e segnano la via. Hänsel e Gretel non avevano inventato nulla, con i loro sassolini. Incontriamo anche l’Hevea brasiliensis, ovvero il caucciù, la pianta da cui derivò la prima rovina per l’Amazzonia, complice il signor Goodyear: la vulcanizzazione della gomma naturale fu per decenni un business colossale, che portò nella foresta decine di uomini senza scrupoli, pronti a trucidare (o schiavizzare) ogni indigeno che avessero trovato sulla loro strada. Le macerie di un villaggio coloniale, nello sperduto Parco nazionale di Jaú, sono un ricordo di quei tempi. La foresta, inutile dirlo, si sta riprendendo tutto: di quei muri, tra qualche secolo, non rimarrà più nulla. Misero contrappasso agli eccidi perpetrati dagli europei, che spinsero varie tribù a isolarsi più a nord, sempre più lontano. Fantastichiamo molto, con Miguel, sui cosiddetti “non contattati”, popoli che non hanno mai avuto scambi con il nostro mondo. Il capitano racconta di aver visto, nei suoi viaggi, qualche indigeno in aree dove non avrebbe dovuto vivere nessuno. Noi per una settimana non vediamo anima viva: siamo solo noi dieci, i membri dell’equipaggio e gli animali. Anche se, chi può dirlo? Magari qualcuno, dietro a un albero del Rio Negro, ci sta guardando.
Alla fine del viaggio, mentre stiamo per prendere un aereo, chiedo ai miei compagni d’avventura che cosa si porteranno dietro dell’Amazzonia, a che cosa ripenseranno una volta ritornati alla civiltà. I ricordi si susseguono: c’è chi ripensa agli occhi rossi dei caimani, di notte, illuminati alla luce delle torce. A quando Marcio si è tuffato all’improvviso per prenderne uno, nel buio più assoluto, con l’unico scopo di farci vedere da vicino com’era fatto (e poi liberarlo poco dopo: una scena che Crocodile Dundee avrebbe apprezzato). Alle scimmie urlatrici che ci risvegliavano al mattino, grida rauche e potenti che sembravano tuoni lontani. Ai tuffi nel profondo della foresta, in pozze d’acqua gelida apparentemente libera da coccodrilli (ma poi chissà?). Ma un’immagine ritorna sempre nelle parole di tutti. È quella delle albe a cui abbiamo assistito dal ponte della barca. Quei momenti in cui i diversi piani della foresta prendevano corpo, colorandosi, passando dal grigio della bruma lontana all’arancione delle acque, attraverso tutte le sfumature del verde. Quando a poco a poco aumentavano le urla delle scimmie, gli uccelli nell’aria, come se qualcuno avesse aumentato il volume, come in un crescendo rossiniano, quasi una festa. Momenti in cui tutti abbiamo sentito dentro qualcosa d’ancestrale, impregnati della potenza del sole che risveglia il mondo e dona la vita. Vengono ancora i brividi, a ricordare quelle albe.