di Alfio Caruso | Fotografie di Alfredo D'Amato
Sono passati più di 150 anni dall’arrivo di Giuseppe Garibaldi, ma il monumento che ricorda i Mille è ancora incompiuto. Nell’attesa, la città offre altri spunti di visita: la storia e l’archeologia, il mare e le saline, il barocco e i musei. Ma soprattutto enoteche e cantine dove nasce il mitico vino omonimo
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In alto i cuori e soprattutto i calici. Il maggior numero di enoteche in rapporto agli abitanti e al territorio: a Marsala (Tp) la cultura del vino ha radici antiche, risalenti ai coloni fenici di Mozia, la cittadina sorta sull’isola di San Pantaleo nell’VIII secolo a.C.
Nel 397 i sopravvissuti alla guerra portata dal tiranno di Siracusa Dionisio cercarono scampo sulla vicinissima costa siciliana. Chiamarono il loro insediamento Lylibeo, cioè “la città che guarda la Lybia” essendo denominata Lybia l’intera costa settentrionale dell’Africa. Da là, per l’esattezza da Cartagine, proveniva la nave punica i cui resti – la poppa e la fiancata di babordo, per circa 10 metri di lunghezza e 3 di larghezza – sono stati rinvenuti fra il 1971 e il 1974 presso punta Alga, sul litorale nord. Gli storici hanno appurato che fu usata durante la battaglia delle isole Egadi, a conclusione della prima guerra punica. Si tratta di un esemplare unico al mondo, importantissimo per lo studio della tecnica navale fenicia in quel tempo all’avanguardia perché basata su pezzi “prefabbricati”, che venivano marcati con lettere e segni particolari in modo da permettere un semplice e veloce assemblaggio. La nave, assieme agli oggetti ritrovati con essa, è oggi accolta nel museo del Baglio Anselmi.
Nonostante la prossimità del mare, gli abitanti di Lylibeo svilupparono pastorizia e agricoltura, e soprattutto impiantarono i primi filari di vite. Fu così avviata quella produzione locale che avrebbe conquistato i tanti conquistatori succedutisi in Sicilia. Dalla parsimonia dei contadini sarebbe scaturito il prodotto destinato a finire sulle tavole di tutto il mondo. Per non perdere, infatti, i rimasugli nelle botti, era stata presa l’abitudine di rabboccare il vino vecchio con il nuovo in modo da mantenerne inalterati i livelli. E il nome affibbiatogli, In perpetuum, ne aveva colto appieno la caratteristica.
Per secoli questo nettare se l’erano goduto i lilibetani, assai gelosi di quel loro vino molto diverso dagli altri confratelli siciliani. I vigneti e la consuetudine del rabbocco avevano resistito alla devastazione dei Vandali e al susseguirsi delle molte dominazioni straniere, a cominciare da quella – determinante – degli Arabi, che nell’VIII secolo rilanciarono i traffici commerciali e battezzarono la città Marsa aliyy, Porto Grande, secondo alcuni, o Marsa Allah, Porto di Dio, secondo altri, da cui il nome attuale. Seguirono i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, gli Asburgo, i Borboni. Nei saliscendi della Storia, a non cambiare fu il Perpetuum, almeno fino all’avventuroso approdo sulla costa siciliana, intorno al 1790, di John Woodhouse.
Costui era un mercante di Liverpool diretto a mazara del vallo e costretto da un’improvvisa tempesta alla sosta nel porto di Marsala. La cena all’osteria accompagnata da un bicchiere del vanto cittadino scatenò l’istinto affaristico di Woodhouse. Giudicò il Perpetuum in grado di rivaleggiare con i due vini da fine pasto più amati dagli inglesi, Porto e Madera, e commercialmente molto più redditizio. Bisognava soltanto risolvere il problema del trasporto. Le prime cinquanta botti spedite a Liverpool sancirono l’immediato successo del vino, soprattutto nella sua variante secca. Era nato il Marsala.
I tanti soldi da subito guadagnati consentirono a Woodhouse la costruzione degli stabilimenti e l’ampliamento del porto per ospitare le navi necessarie a soddisfare le crescenti richieste degli estimatori britannici. L’accesso al desco dell’ammiraglio Nelson, che lo definì «degno della mensa di ogni gentiluomo», ne sancì la consacrazione. Al punto di indurre altre dinastie imprenditoriali come gli Ingham-Whitaker, i Payne, i Corlett, i Wood a lanciarsi nella produzione. Nel 1832 pure la potente famiglia calabrese dei Florio, trapiantata a Palermo, edificò il suo primo stabilimento e attraverso le 99 navi della loro compagnia marittima diffuse il Marsala ovunque.
Di conseguenza anche i Mille di Garibaldi, che sbarcarono l’11 maggio 1860, sapevano che cosa richiedere ai pochi osti del Cassaro – la lunga e caratteristica via principale oggi denominata per l’appunto XI Maggio – che quel giorno non avevano chiuso bottega. Attorno a essa resiste il cinquecentesco quartiere spagnolo dentro un quadrilatero delimitato anticamente da una cinta muraria, della quale rimangono quattro bastioni (via Colocasio, via Omodei-via Amendola, via Alagna, via Sibilla). Le testimonianze di quei giorni sono conservate nel museo garibaldino presso il complesso di S. Pietro.
Molto più problematica la realizzazione del monumento che già centocinquant’anni addietro si decise di dedicare alle camicie rosse. Di rinvio in rinvio, soltanto nel 1920 lo scultore Ettore Ximenes consegnò al Comune il basamento in granito. Il progetto fu completato a ridosso del 1960 dall’architetto Emanuele Mongiovì: due poppe di nave in travertino a grandezza quasi naturale, fuse in una sola prua, a ricordare i due bastimenti dell’impresa. I lavori s’iniziarono nel 1986. Dopo due anni giunse però lo stop della magistratura: l’area era di proprietà del demanio marittimo e l’opera abusiva. Solo nel 2003 una variante urbanistica spazzò via i vincoli. Nel 2007 il Comune lanciò una gara di idee per il completamento dell’opera. Si ricominciò nel 2011 prima del nuovo stop non avendo la ditta appaltatrice ricevuto un centesimo dei 240mila euro spesi. La mancata erogazione del milione di finanziamento promesso dal governo Berlusconi fece fallire l’appuntamento con le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, mentre lo scheletro di blocchi, pilastri e vasche di cemento armato troneggiante nel lungomare di Marsala si riempiva di immondizia trasformandosi in una discarica.
Nell’aprile 2014 è ripresa la realizzazione dell’opera, in versione ridotta rispetto al faraonico progetto originale, con l’installazione di pannelli con tutti i nomi dei Mille, e sopra il tetto dovrebbe essere realizzata una terrazza cocktail. Purtroppo è già di nuovo tutto in sospeso, con gli immancabili strascichi giudiziari, giacché mancano i fondi anche per questa versione ridotta dei lavori. Il monumento è pronto per ritornare a essere una discarica e dar modo a Giacomo Di Girolamo, Antonella Genna e Francesco Timo di editare una nuova versione di Non più Mille (Coppola Editore), in cui hanno raccontato il calvario lungo un secolo e mezzo di promesse, rinvii, intralci, sprechi e insensatezze del manufatto garibaldino.
Nell’attesa, meritano una visita il Duomo del XVII secolo, costruito su impianto normanno del 1176 e dedicato a San Tommaso (Thomas Becket) di Canterbury, al cui interno è conservato un organo a 4.317 canne; il castello, anch’esso di origine normanna; il palazzo 7 Aprile, del XVI secolo, e infine le Cantine Florio, il vecchio stabilimento costruito dal capostipite Vincenzo dirimpetto al mare e trasformato in un intrigante museo: si passa dalle antiche pipe impiegate per far viaggiare il marsala a memorabilia, fucili, divise, oggetti che rimandano all’impresa dei Mille.
Al tramonto imboccate la litoranea che conduce a Trapani: la luce del sole rimanda riflessi rossastri sulle acque delle vasche da raccolta delle famosissime saline sullo sfondo della Laguna dello Stagnone circondante Mozia e il suo leggendario Giovinetto. Uno spettacolo irresistibile della natura, che da giugno a settembre, inoltre, consente di ammirare la cristallizzazione e la raccolta del sale.