Il viaggiatore. In Tunisia

Mondadori Portfolio/Leemage

Le memorie di viaggio in Nordafrica dello scrittore francese Guy de Maupassant, tra moschee ordinarie e città sperdute. Solo Djama Kebir lo impressionò più di Venezia

In Tunisia, constatò de Maupassant, l’aria era «più dolce, calmava di più i nervi sovreccitati» che nell’amata Algeria. Lo scrittore e drammaturgo francese era arrivato passando tra le rovine romane, i cactus e gli ulivi. A Enfida aveva visitato lo smisurato cimitero dove nell’antichità erano sepolti i berberi. L’immensità del lago di Kelibia gli aveva fatto pensare che forse quella del mare interno africano non era solo una leggenda. Nella notte le strida degli uccelli acquatici – fenicotteri, gru, folaghe, gabbiani – producevano un frastuoso incredibile. La moschea del Barbiere, «un monumento carico di cupole», lo guidò verso Kairuan (oggi Qayrawan), «triste città sperduta nel deserto in questa solitudine arida e desolata». Maupassant si era addentrato nei vicoli sotto lo sguardo curioso dei commercianti arabi. Nell’aria umida di un bagno turco, si sentì soffocare. Temette di scivolare sul pavimento sdrucciolevole delle celle nere del massaggio. Quando finalmente ne emerse, la città gli apparve bianchissima, misera e altera. Le donne vestite di nero come spettri «sembravano la morte che passeggia». Kairuan gli sembrò «più selvaggia, più segnata dal fanatismo nella sua misera e altera nobiltà». Nei negozi i venditori seduti alla turca erano pronti a staccare i datteri dal mucchio di pasta vischiosa in cui giacevano appiccicati. 

Solo la moschea di Djama-Kebir «con l’alto minareto che domina la città e il deserto e la isola dal mondo» gli piacque davvero. Di quell’immenso edificio di una «bellezza inesplicabile e selvatica» lo colpirono soprattutto i due chiostri. Le centinaia di colonne di onice, porfido o marmo trasformavano l’interno in una «foresta sacra». Il mihrab rivolto verso la Mecca era una meravigliosa nicchia di marmo, dipinta e dorata con un gusto squisito. Saliti i centoventi gradini del minareto, Kairuan sembrava «una scacchiera di terrazze di gesso, da cui zampillano da ogni parte le grandi cupole sfolgoranti delle moschee». Doveva ammetterlo, neppure S. Marco a Venezia o la Cappella Palatina di Palermo l’avevano impressionato a quel punto. Quelle erano opere razionali, meditate da grandi architetti. La moschea invece era l’opera di un popolo ignorante, che «mosso da un’ispirazione sublime, ha innalzato una dimora al suo dio, fatta di pezzi strappati alle città in rovina, ma perfetta e magnifica». Niente di monumentale nella moschea di Sidi-Sahab, «la più graziosa, colorita e civettuola delle moschee». 
Nel chiostro con gli archi a ferro di cavallo, «il sole si rovescia in una fascia dorata sui muri rivestiti di maioliche mirabili». In un gran cortile quadrato si apriva la porta di un santuario in cui si trovava la tomba del barbiere di Maometto. Nell’ultimo cortile c’era una scuola di fanatici musulmani. Alcuni si dedicavano a pratiche spaventose come mangiare chiodi, vetro, scorpioni o serpenti. Ma lo commosse il passaggio di un libro sacro: «L’amore è il grado più completo della perfezione. Chi non ama non ha raggiunto niente nella perfezione».