di Silvestro Serra | Fotografie di Fabrizio Finetti
A quattro secoli dalla scomparsa di Miguel Cervantes, che cosa resta delle sue avventure e dei suoi ideali nelle terre attraversate dal “suo” cavaliere errante
Quattrocento anni ben portati. Persino lo scheletro, appena ritrovato nei meandri del convento dei Trinitari Scalzi in calle Lope de Vega a Madrid, è intatto e riconoscibile per via dei denti saltati e del braccio ferito nella mitica battaglia di Lepanto alla quale partecipò coraggiosamente e che gli procurò il soprannome di “El Monco de Lepànto”. A quattro secoli dalla morte, avvenuta lo stesso giorno di quella di William Shakespeare, il 23 aprile 1616, Miguel De Cervantes Saavedra è ancora saldamente a cavallo. E con lui monta sul suo Ronzinante nelle piazze e nei monumenti di tutta la Spagna, l’immortale personaggio della letteratura creato dalla sua fantasia, quel Don Chisciotte che, come tutti sanno anche senza aver letto il libro, è “il cavaliere dalla triste figura” (per via dei denti), l’hidalgo senza paura, un po’ incosciente, un po’ visionario, nominato cavaliere della Mancia (da un oste comprensivo e due prostitute scambiate per dame di corte). Un personaggio picaresco che in attesa della nomina a “imperatore di Trebisonda” è sempre pronto a imbarcarsi in nuove avventure, proteggere i deboli, battersi contro i soprusi e i torti, veri o presunti, in nome degli intramontabili ideali della cavalleria, dell’onore e dell’amore (per la «sempre più bella Dulcinea», in realtà una rozza contadina, Aldonza) anche a costo di scambiare i mulini a vento per giganti dalle braccia roteanti, un gregge per un esercito arabo, o a infilzare delle botti di vino.
Un “ingenioso hidalgo”, un cavaliere errante alto e asciutto, che girovaga per la Spagna in compagnia del tozzo, grasso e pratico Sancho Panza, fedele scudiero. Ma certamente un tipo curioso. Che ha sedotto generazioni di artisti e continua a stimolare la fantasia di scrittori, registi, autori di musical e di canzoni (vedere box dedicato), senza contare straordinari pittori come Gustave Doré, Salvador Dalí, Pablo Picasso.
Per cercare di capire i motivi di questa irresistibile attrazione globale per la strana coppia siamo andati a girovagare alla ventura, alla maniera di Don Chisciotte, nel suo campo di azione, quella Mancia dove parte e si svolge la sua storia. Sia chiaro, chi vuole può organizzarsi bene. In previsione dell’importante anniversario sono stati tracciati ben dieci percorsi, le Rutas del Quijote, che si incrociano e si sviluppano per 2.500 km percorribili a piedi, in bicicletta o a cavallo.
Ma è un caso che questo capolavoro sia nato in questo spicchio di Castiglia, oppure c’è un legame, un filo rosso, che unisce il genius ai luoghi? E ancora, che cosa rimane, oltre ai monumenti, in questo altopiano nel cuore della Spagna di quella vena di leggera follia sognatrice e idealista del nostro cavaliere errante? Sarà un caso che un altro visionario, il regista Pedro Almodóvar, sia nato proprio nel cuore della Mancia donchisciottesca, in quella Calzada de Calatrava che fu la sede più importante dell’omonima società di cavalieri monaci e guerrieri?
Certo è che i mulini a vento ci sono oggi come allora e si stagliano contro la collina del paesetto di Consuegra, fino a qualche anno fa dormitorio per lavoratori giornalieri dell’edilizia a Madrid, oggi riciclatisi come agricoltori in una zona ricca di orti e coltivazioni biologiche. A Consuegra vivono contadini di ritorno, tutti con tre/quattro figli («ma non siamo seguaci dell’Opus dei») che sanno coniugare il turismo culturale con la lavorazione della terra. Persone come José Manuel che hanno restaurato gli antichi mulini, undici in tutto, e che spiegano a scolaresche e turisti cinesi (convinti che i mulini siano dei portafortuna) la loro storia. Una storia davvero interessante che risale alla scoperta dell’America.
Con l’aumento esponenziale dei traffici oceanici la flotta spagnola ebbe improvvisamente bisogno di tante navi. Ecco che La Mancia ricca di foreste venne praticamente disboscata per costruirle. In poco tempo si inaridì, l’acqua dei torrenti sparì e così per produrre energia si decise di importare dall’Olanda i mulini a vento. Erano la massima espressione della tecnologia moderna, del progresso e ancora oggi vengono considerati capolavori di ingegneria, con meccanismi, ruote, macine pesantissimi, di legno massiccio, che grazie a un sistema di leve possono essere girati con una sola mano per adattarli a sfruttare la direzione dei venti dominanti, come l’ábrego hondo e il solano, che raggiungono anche gli 80 km orari.
Intorno ai mulini di Consuegra è rimasto quasi immutato l’orizzonte mancheco che vedeva Don Chisciotte vagabondando nella regione. Stessa sensazione di immutabilità l’abbiamo avvertita a Campo de Criptana, altra tappa donchisciottesca. Qui di mulini, tra originali e ricostruiti o restaurati ce ne sono ben 34 sparsi come un gregge su un’altura. Intorno casette bianche e basse, una bodega di vino tipico e un ristorante, Las Musas, che come discoteca richiamava negli anni Sessanta la meglio gioventù madrilena in fuga dalla capitale. Qui abbiamo assaggiato las migas (gustose briciole di pane raffermo condite con aglio, pancetta e salsicce, una volta il cibo dei poveri), il pisto, sapiente miscela di pomodorini e peperoni e i duelos y quebrantos, un piatto caratteristico della Mancia, una specie di carbonara rinforzata e celebrata addirittura nella prima pagina del libro di Cervantes.
E sì, perché ai nostri due eroi la ricerca epica non impediva la frequentazione di osterie e botteghe del vino. Anzi, molte avventure partivano o finivano a un tavolo di un’osteria. Ed è in una di queste, la Botega Castilblanche, ora una azienda vinicola di prim’ordine, che ci fermiamo per assaggiare il vino locale. Un vino che, come accadeva in Puglia e in Sicilia, fino a qualche tempo fa era considerato un prodotto di quantità e non di qualità. Ora invece sta diventando una raffinata do (denominación de origen, ovvero la nostra doc). La cantina prevede, oltre a visite guidate, corsi sulla cultura del vino persino per i giovanissimi (dai sei anni in su), con degustazioni di solo mosto.
Continuando il nostro errare superiamo il paese di Toboso dove un palazzo nobile si è prestato a fare da dimora – virtuale – della bella Dulcinea e ci fermiamo a dormire in un parador, benedetta istituzione statale che permette da un secolo di ospitare in ambienti sontuosi e suggestivi, castelli, conventi e antiche dimore, i turisti a prezzi da pensione o poco più. Il nostro, affascinante, si chiama Don Juan a Belmonte (si fa colazione nella antica canonica) ed è accanto al nuovo castello del marchese di Villela, amico del re, nemico giurato della regina Isabella e divenuto famoso postumo, grazie a una popolare serie tv. Un concentrato di merli, torrette, scalette a chiocciola, finestre a bocca di lupo, saloni, soffitti di legno intarsiati, spadoni e lucide corazze e misteriose simbologie, che fu il rifugio di Eugenia de Montillo una volta rimasta vedova dell’imperatore francese Napoleone III.
Puntiamo ora su Toledo, l’antica capitale della Spagna di Carlo V, ma già utilizzata come avamposto dai Romani. Plinio la trovò «Urbs parva sed loco munita», “città piccola ma ben difesa”, su uno sperone di roccia protetto da un’ansa del fiume Tago. Al tempo, imprendibile. Famosa per le lame delle sue spade ma anche per la cattedrale più grande di Spagna dopo quella di Siviglia, Toledo è stata per secoli, anche grazie allapolitica di Alfonso X il Saggio, un concentrato pacifico delle tre culture, araba, ebraica e cristiana (oggi anche questo potrebbe definirsi un sogno donchisciottesco), ben rappresentate da moschee, sinagoghe, chiese e dal centralissimo Alcalà, il mercato accanto alla cattedrale.
Non risulta che Don Chisciotte ci abbia messo piede ma sicuramente ci abitò Cervantes. Qui conobbe El Greco, straordinario pittore inviso alla corte di Madrid che a Toledo trovò grande successo: di lui rimane un’imperdibile opera nella chiesa di S. Tomé, la Sepoltura del conte di Orgaz, in cui, tra i volti dei cavalieri dolenti si riconosce il ritratto proprio di Miguel Cervantes.
Da Toledo ci dirigiamo verso le lagune di Ruidera, un sistema di laghi comunicanti che formano un parco naturale anch’esso teatro delle gesta del cavaliere errante, così come la grotta di Montesinos, dove Don Chisciotte trascorse una notte magica, incontrando (sognando?) fantasmi e un magnifico palazzo di cristallo. Sosta alla Venta del Quijote, tipica (fin troppo) locanda carica di souvenir ma a modo suo autentica e ruspante. Fu qui che si celebrò la cerimonia dell’investitura a cavaliere di Chisciotte da parte dell’oste. Inutile dire che ci si deve districare tra fiumi di turisti spaesati, soprattutto orientali. Meglio fuggire nel vicino paese di Almagro, un gioiello architettonico con al centro una plaza Major tra le più belle di Spagna, circondata da un’unica lunga costruzione bianca e verde a soli due piani sostenuta da un colonnato e con un porticato, intorno alla quale si svolgeva (e si svolge ancora) tutta la vita del paese: mercato, fiere e persino le corride prima che si costruisse la plaza de toros. Tra i suoi tesori la plaza nasconde anche il Corral de la Comedia, un vero teatro elisabettiano (come il londinese Globe di Shakespeare) trasportato in terra di Spagna.
Sono ancora tanti i luoghi cervantini in cui vagare, da Puerto Lápice fino a una delle ultime case abitate dallo scrittore prima di trasferirsi a Madrid.
Siamo nel minuscolo paesino di Esquivias, dove gli abitanti mettono gratuitamente in scena ogni giorno, a beneficio dei visitatori, pièce teatrali in costume d’epoca che raccontano un maturo Cervantes in versione domestica e le sue vicissitudini con la giovanissima moglie.
A conclusione di questo andare a zonzo ci resta la sensazione che questa Spagna silenziosa, assolata, brulla, fatta di orizzonti infiniti e di altopiani colorati, dove per decine e decine di chilometri non si vede una abitazione (non a caso la Mancia è una delle destinazioni preferite per il weekend dagli stressati madrileni) abbia giocato un ruolo e continui a essere coprotagonista attiva nel capolavoro di Cervantes. E vengono in mente le parole dello scrittore russo Ivan Turgenev: se è vero che «tutti gli uomini sono o Amleto o Don Chisciotte», qui prevale decisamente il secondo tipo: non uno scettico tormentato come il pallido principe danese ma uno che, a rischio di apparire ridicolo e goffo nei modi, si dimostra tuttavia generoso e irruente, e soprattutto in grado, con i suoi sogni strampalati, di cambiare il mondo.