di Viviano Domenici | Foto di Viviano Domenici
In Mongolia quando si viaggia ci si ferma sempre per lasciare un piccolo dono agli oboo: mucchi di pietre simili a una discarica indifferenziata che in realtà corrispondono alle nostre edicole votive
La prima volta che ebbi un incontro ravvicinato con gli «spiriti del buon viaggio» fu nell’estate 1991. Stavo viaggiando nel deserto del Gobi, in Mongolia, seduto nel cassone di un camion russo in grado di superare qualsiasi ostacolo naturale, ma incapace di offrire qualsivoglia comfort. L’obiettivo della spedizione paleontologica era indicato su una carta geografica con un asterisco rosso, disegnato a mano in mezzo al nulla della regione del Nemegt, e con due parole piene di speranze: «Qui dinosauri!». Le giornate erano punteggiate da surreali dialoghi con l’autista mongolo che parlava e intendeva solo la sua lingua, ma rispondeva sì o no con un cenno della testa a qualsiasi mia frase, e io facevo lo stesso per replicargli senza capire cosa diceva. Un tentativo di socializzazione basato sull’incomunicabilità.
La conversazione si interrompeva soltanto quando all’orizzonte compariva un oboo, un mucchio di pietre alto uno o due metri, coronato da qualche ramo secco su cui sventolavano come tante bandierine brandelli di stoffa colorata. Tumuli sciamanici ai quali l’autista era particolarmente devoto tanto che non esitava a deviare di chilometri se all’orizzonte ne compariva uno. A quel punto scendeva dal camion, raccoglieva qualche pietra, una lattina appena svuotata, un accendino esaurito, un osso di cammello, una caramella o qualsiasi altra cosa e buttava il tutto sul sacro mucchio contribuendo a trasformarlo in una sorta di discarica indifferenziata. Quindi mi sollecitava a fare altrettanto, poi mi invitava a seguirlo nei tre giri intorno all’oboo – in senso orario – per rendere omaggio agli «spiriti del buon viaggio», che certo non sarebbero rimasti insensibili a tanta devozione risparmiandoci qualcuno dei mille accidenti possibili in un viaggio del genere. Col passare dei giorni mi parve di capire che gli oboo non fossero dislocati a caso, ma si trovassero in punti strategici: su un crinale, alla fine o all’inizio di un canalone, in vista di un pendio pericoloso e – nell’insieme – creassero un percorso consigliato e protetto dagli spiriti. Per questo mi adattai di buon grado alla sosta davanti a ciascuno. Finché rimasi senza materiale da offerta e potei donare solo la minuscola batteria esaurita della macchina fotografica. Davvero poco anche per spiriti di poche pretese, e l’autista me lo fece notare con un’occhiata in bilico tra il rimprovero e la preoccupazione. Il viaggio fece tappa alle Rocce Fiammeggianti, un luogo spettacolare cosparso di ossa di dinosauri, dove ebbi la soddisfazione di trovare un uovo di dinosauro intatto. Così pensai che gli «spiriti del buon viaggio» non si fossero offesi per la pochezza della mia offerta; ma dovetti ricredermi.
Un paio di giorni dopo mentre tornavamo al campo base, il camion su cui viaggiavo ebbe un incidente inimmaginabile in quel deserto: il suo peso schiantò il terreno che nascondeva un’area di fango denso e appiccicoso come gomma da masticare (sabbie mobili umide) in cui il muso del camion si infilò lentamente fino a mezza cabina. Ci vollero due giorni per liberarlo dal fango indurito, nervosismo generale, scorte alimentari e acqua pericolosamente ridotte.
Gli oboo mi tornano in mente quando penso a quelle piccole edicole con l’immagine sbiadita di una Madonnina o di un santo sconosciuto che si incontrano sui sentieri delle nostre montagne. Devono essere parenti degli oboo della Mongolia, dei solitari alamat del Sahara e di altri spiriti più o meno permalosi disseminati lungo le piste di mezzo mondo. Sarebbe bene lasciare sempre qualcosa, almeno un pensiero.