di Luca Bonora | Foto di Luca Bonora
Benvenuti a Røros, un tempo il più importante centro minerario del Paese, ora piccola capitale della cucina tradizionale, ripartito grazie al turismo
Non è tutto oro quel che luccica. Lo imparò a sue spese Hans Olsen Aasen, un cacciatore di renne che nel 1644, sulle montagne del Trøndelag, mentre recuperava una preda appena abbattuta notò diverse pietre luccicanti e dal colore dorato. Emozionato, ne raccolse più che poteva e le fece vedere a un minatore tedesco che viveva nella zona. Il responso fu deludente: non era oro, era rame. Inizia così la storia di Røros, con una renna appena morta – le è stata eretta una statua vicino alla stazione – e un cercatore di rame appena nato.
All’epoca in questa zona c’erano solo alcune isolate fattorie. Nel giro di pochi anni, furono aperte miniere e scavati cunicoli in un raggio di diversi chilometri. I centri di estrazione erano una ventina e pur essendo prevalentemente di rame, furono trovate anche vene di argento e di altri metalli. La Norvegia aveva trovato il suo Klondike.
Chi lavorava in miniera aveva bisogno di un luogo dove vivere, naturalmente. E anche tutti coloro che si occupavano dei materiali estratti, della loro raffinazione, del loro commercio. E poi, c’era chi provvedeva al cibo, agli indumenti: in breve, attorno alla miniera principale nacque una piccola città, realizzata interamente in legno e con i tetti in erba, Røros. Nel periodo di massima espansione, superava i 15mila abitanti. Ci troviamo a 650 metri di quota – da queste parti, montagna – ed è anche storicamente un punto di incontro, sia perché siamo a pochi chilometri dal confine con la Svezia, sia perché il commercio dei metalli portava qui, oltre a norvegesi e svedesi, anche lapponi, danesi, tedeschi, olandesi.
Chi ha visitato la galleria nazionale di Oslo ha avuto modo di ammirare i quadri del pittore norvegese Harald Sohlberg: le sue opere sono famose, ma pochi avranno riconosciuto in quegli scorci invernali, con basse case di legno e un campanile che svetta, Røros, il paese che a partire dal 1644, divenne il principale centro minerario della Norvegia.
Røros conserva ancora molto del suo carattere originale. Lo schema delle strade nel centro città è rimasto lo stesso di quando furono costruite. Un discorso a parte merita la chiesa del paese, edificata, fra il 1780 e il 1784, dalla compagnia mineraria che allora possedeva l’intera città. La chiesa ha 1640 posti a sedere, un numero che la rende ancora oggi una delle più grandi dell’intera Norvegia. L’edificio costò 23mila riksdaler, la moneta dell’epoca: una cifra enorme se si pensa che la paga annua di un minatore era di 50 riksdaler. Gli uomini sedevano sulla destra, le donne sulla sinistra, ai ricchi, senza distinzione di sesso, spettavano le prime file. Il riscaldamento arrivò oltre un secolo dopo, nel 1888. L’interno risulta bizzarro, un po’ per le tinte azzurro pastello con cui è dipinta, un po’ per la presenza di loggioni e tende che ricordano più un teatro che un luogo di culto. La chiesa di Røros è importante perché costituisce la memoria storica del luogo: al suo interno, anziché le effigie dei santi, troviamo i ritratti del primo direttore della compagnia – l’ex cacciatore di renne Aasen –, del direttore che la fece costruire, del pastore che consacrò l’edificio, del poeta e scrittore Johan Falkberget (1879-1967), nato in questa zona e candidato al Nobel per la Letteratura. La domina il campanile, alto 50 metri, cosicché si possa vedere e sentire da lontano. Sopra l’orologio, naturalmente, campeggia lo stemma della compagnia mineraria.
In ogni favola che si rispetti a un certo punto arriva il cattivo, ma non in questa. Il punto di svolta non fu qualcuno che arrivava, ma qualcosa che finiva: il rame. Le miniere si andavano esaurendo. Nel 1977 chiudeva l’ultimo filone. Per Røros e i suoi abitanti si prospettava un futuro buio.
E invece no. Con orgoglio, i cittadini di Røros decisero che la loro storia, il loro passato avrebbero costituito le basi per il loro futuro. La cittadina mineraria e altre località nel raggio di 50 km (la cosiddetta Circonferenza, che comprende i comuni di Holtalen, Os, Tolga, Tydal e a Est una piccola fetta di territorio svedese), tutte coinvolte nell’attività estrattive, hanno fatto richiesta di tutela all’Unesco e sono diventate nel 1980 uno degli otto siti norvegesi Patrimonio dell’Umanità. Tre le motivazioni: “testimonianza unica di una tradizione culturale; esempio eminente di costruzione tecnologica illustrante uno dei periodi della storia umana; esempio eminente di interazione umana con l’ambiente”.
In città, l’area adiacente al primo stabilimento di lavorazione dei metalli, con le case dei minatori, risalenti alla metà del XVII secolo, costituisce un emozionante museo a cielo aperto e permette di comprendere le condizioni di vita quotidiana (per noi oggi insostenibili) di quelle famiglie che vivevano senza acqua corrente, senza luce elettrica e soprattutto senza riscaldamento che non fosse a legna.
La miniera principale, Olavgruva, che sorge poco fuori dal paese, è diventato un percorso di visita attrezzato e inizia con un piccolo ma interessante museo che riassume la storia delle miniere di rame a Røros. È aperto tutti i giorni da maggio a metà settembre, in inverno solo il sabato (vi raccomandiamo calzettoni pesanti: per la visita si indossano stivaloni di gomma antiscivolo molto utili ma anche molto freddi). All’interno non si esplorano solo i cunicoli di scavo, ma anche i luoghi in cui i minatori mangiavano, si riposavano, pregavano. I turni erano così pesanti che spesso non si risaliva in superficie per giorni. I cunicoli – in parte naturali – hanno dimensioni variabili e ci sono punti in cui il rame ossidato regala sfumature cromatiche inaspettate, dal rosso scuro fino al verde-azzurro. La visita dura circa un’ora ed è un’esperienza da provare.
In una terra dove in ogni fattoria si coltivavano le verdure, si preparavano marmellate e distillati, si cuoceva il pane per l’inverno, secondo ricette tramandate di madre in figlia, non poteva mancare una cucina tradizionale. Anche perché qui il terreno è diverso: funghi, erbe, verdure hanno più gusto. E così anche la carne, manzi e pecore che di quelle erbe si cibano. Le materie prime sono naturalmente più buone. Valorizzare questo potenziale è stato il passo successivo, e determinante, per la rinascita di Røros. In questo ambito è nato il progetto Local food safari, una giornata di visite in fattoria alla scoperta dei sapori della tradizione. Pur essendo abituati a standard gastronomici mediterranei, nettamente superiori a quelli dei Paesi nordici, abbiamo assaggiato un ottimo stufato di manzo, patate novelle dal sapore unico e un gelato ai mirtilli strepitoso. E se il Local food safari, come la visita alle miniere, è un’attività prettamente estiva, in inverno è possibile provare il trail nei dintorni di Røros con slitte trainate da cavalli, un’esperienza estrema ma indimenticabile che può durare da uno a quattro giorni. Ideale per contrastare le rigide temperature invernali (qui si scende sottozero per diversi mesi) è l’Aquavit, distillato di patate sui 40° la cui degustazione è consigliata con grande moderazione. Adatto a tutte le stagioni è invece il Røros gin, un’aperitivo a base di succo di mirtillo, (poco) gin e seltz offerto ai visitatori nei bar e ristoranti del paese, le cui proporzioni sono custodite gelosamente: anche un drink può essere espressione del territorio, in fondo.
Nel 2013, ecco la ciliegina sulla torta della rinascita: Røros riceve la certificazione Turismo Sostenibile, un marchio di qualità assegnato alle destinazioni che lavorano in modo sistematico per ridurre l’impatto ambientale del turismo, pur garantendo un’esperienza di alta qualità per i visitatori, e nel preservare la storia, il carattere e la natura della destinazione.
La porta d’accesso a Røros per chi arriva dall’Italia o comunque dal Sud Europa è Trondheim, capoluogo del Sør-Trøndelag e terza città della Norvegia. Siamo a poco meno di un’ora di volo da Oslo, ma giungerci in treno permette di ammirare panorami decisamente più interessanti.
È una città che ha fatto dell’essere green la sua filosofia: dal 2008 è impegnata seriamente per ridurre le emissioni ed eliminare l’inquinamento da traffico. Oggi a Trondheim sono attivi 120 progetti di mobilità green, fra cui bus elettrici, una rete capillare di piste ciclabili rese agibili anche d’inverno, e perfino il primo skilift per bici al mondo che permette di superare senza sforzo il dislivello che dal lungofiume risale fino al nucleo storico. Trondheim è piacevolissima da visitare, con le numerose aree verdi realizzate lungo la Nidelva, il fiume che la attraversa, su cui si affacciano edifici in legno vivacemente colorati. Fiore all’occhiello è il Domkirke, la cattedrale gotico-romanica che è anche il più grande edificio in pietra della Norvegia. Originaria dell’XI secolo, è stata più volte ricostruita per incendi e l’ultimo restauro si è chiuso nel 2001. Questo spiega perché, per quanto materiali e linee architettoniche siano di mille anni fa, risulta insolitamente “nuova”. Spesso è indicata come la cattedrale di Nidaros, il nome medievale della città di Trondheim, che significa “foce del fiume Nid”. All’interno è tutto imponente, dalle acquasantiere in marmo al rosone che sovrasta l’organo, dal diametro di 12 metri. La tradizione vuole che Olav, il re che fu fatto Santo, sia sepolto sotto la cattedrale, cosa che la rende un’importante meta di pellegrinaggio nel Nord Europa.
Il tram numero 1 che dal centrocittà porta a lien impiega 25 minuti e 19 fermate a percorrere gli 8,8 km del suo tracciato e raggiungere un meraviglioso lago balneabile, in quello che è il più sorprendente capolinea che io abbia mai visto: siamo alla periferia di una città e contemporaneamente in montagna. Poco sopra questo lago meta di invidiabili picnic domenicali si trova l’area di Lientunar, un altro progetto in cui i norvegesi dimostrano la loro attenzione al local food: qui una organizzazione no-profit opera da alcuni anni per far conoscere ai bambini delle scuole dell’obbligo l’importanza delle materie prime. Imparare a cucinare è il primo passo perciò, dopo aver spiegato che il latte viene dalla mucca e non dal cartone del supermercato, i ragazzini vengono divisi in gruppi e in un laboratorio all’aperto allestito sotto un enorme teepee indiano preparano le verdure per lo stufato, accendono il fuoco, affettano il formaggio, tagliano e frullano la frutta fresca. Oggi qui si (ri)scopre quello che in Italia facciamo da sempre – e ultimamente stiamo un po’ trascurando –: l’importanza di insegnare alle generazioni future a cucinare a chilometro zero e, soprattutto, a mangiare sano.