Kerala, il Paese delle noci di cocco

Il piccolo Stato indiano del Kerala ha il reddito più basso, ma il più alto tasso di cultura, istruzione e tolleranza del Subcontinente. Una meta insolita e al tempo stesso ideale per avvicinarsi al “pianeta India”. Le impressioni di viaggio di Simonetta Agnello Kornby

Sono andata a marzo a Kochi, una città di lagune sul mare Arabico. Vi sostò Marco Polo; dal Quattrocento in poi portoghesi, olandesi – che vi costruirono il Palazzo reale – e inglesi vi si stabilirono, mantenendo la dignità ma non il potere dei maharaja. Le indicazioni stradali, la pubblicità e le insegne dei negozi lungo la strada dall’aeroporto sono in inglese. Il nostro autista spiega, compiaciuto, che l’inglese, e non l’hindi, era la seconda lingua dello Stato. Il Kerala – che significa “il luogo delle noci di cocco“ – ha il tasso di alfabetizzazione più alto dell’intera nazione indiana, superiore anche ad alcuni Paesi europei: oltre il 90%. Nel 1957, le prime elezioni libere e democratiche portarono al governo il Partito comunista, che diede massima priorità a istruzione, sanità, servizi sociali e sviluppo economico. Da allora, i keralesi sono i più sani, i meglio istruiti, i più tolleranti e i meno corrotti cittadini dell’India nonostante il basso reddito pro capite. Tutto ciò è stato misurato attraverso sistemi di indici di sviluppo introdotti da Amartya Sen, premio Nobel, e poi adottati dall’Onu. È il maggiore successo del comunismo nel mondo, che permane nonostante dal 1982 il potere sia gestito a turno da comunisti e socialisti.

 

Al tramonto Giovanna e io lasciamo l’albergo Brunton Boatyard e camminiamo indisturbate sul lungomare. Non c’è un mendicante in giro. Famiglie hindu, mussulmane e cristiane fanno la passeggiata serale. Gli adulti chiacchierano, i bambini giocano, gli innamorati passeggiano guardandosi negli occhi, i pensatori camminano lenti. Altri fanno la fila per comprare dalle friggitorie improvvisate su trespoli il pesce appena pescato. Incuranti della nostra presenza.

Tra il verde della vegetazione appaiono squarci luminosi del canale solcato da barconi; le palme appesantite da grappoli di noci di cocco si inclinano sulle acque come se volessero tuffarsi.
Attratte dal profumo del pesce arrosto, ceniamo al Maples Café a Fort Kochi, una capanna sulla costa. Il giovane proprietario, dal braccio atrofizzato, ci osserva con indolente curiosità; poi si avvicina. Ha aperto il locale due anni fa, con un prestito a basso tasso dello Stato creato per i disabili.

Kochi non è mai stata una colonia e dunque ha assorbito quello che voleva dalle culture diverse dei visitatori. I primi, 2700 anni fa, gli ebrei esuli dopo la caduta del regno di re Salomone. La sinagoga non è lontana dai templi indù, dalla cattedrale cattolica e da una moschea. Poi vennero San Paolo e i suoi seguaci. Infine l’Islam, mille anni fa. Le religioni autoctone convivono felicemente con le tre straniere.

La storia degli ebrei di Kochi, iniziata e finita con una diaspora, è particolare. Con il passare dei secoli persero la lingua e la conoscenza della Bibbia, che recuperarono 1400 anni dopo dagli ebrei sefarditi sbarcati con i portoghesi e gli olandesi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, sconvolti dalle notizie del genocidio nei campi di concentramento nazisti, allarmati dall’incertezza politica dell’India unificata e indipendente e dalla recrudescenza dell’intolleranza tra hindu e mussulmani, gli ebrei – tutti facoltosi – lasciarono Kochi in massa per emigrare in Israele: una diaspora volontaria.

Sono rimaste solo due donne, zia e nipote. Quest’ultima non ha preso marito: non ci sono maschi ebrei. Ho conosciuto la zia nel suo bazar. «Avevano paura, gli altri, e se ne sono andati, ma io appartengo a questo Paese, io sono di Kochi, questi   sono i miei dipendenti, questa è la mia città. E ci sto bene», afferma decisa. Mi chiedo se la nipote sia d’accordo con lei. Le donne di Kochi, di qualsiasi fede siano, sono forti: in certe comunità esiste addirittura la matriarchia. Sui mezzi pubblici hanno i posti davanti, e gli uomini quelli dietro.

 

A due passi dall’albergo, il teatro del Kathakali offre una rappresentazione della danza tradizionale dell’induismo basata sul Mahabharatha e il Ramayana. Accovacciati sul palcoscenico, gli attori si truccano da soli spalmandosi sul volto pasta di cocco verde, rosso, bianco e nero guardandosi in specchi minuscoli. Un rito. Ore dopo, i volti mutano in maschere voluminose. La gestualità e la mimica spiegano la storia anche a noi. A differenza di altre rappresentazioni teatrali di storie sacre, il Kathakali celebra l’essere umano e le emozioni degli uomini, non la divinità.

Dalla terrazza dell’albergo vediamo la filiera del pesce fritto di strada più veloce del mondo. Le reti cinesi, enormi quadrati di rete leggera in cima a un palo connesso a due altri pali, sono costruzioni semplici e mirabili. Calano lentamente nell’acqua man mano che si alleggeriscono dei contrappesi; vi restano quanto basta per riempirsi e poi si rialzano. Una vista che non stanca mai. Sulla spiaggia, pescivendoli e privati aspettano il pescato; contrattano veloci e vanno via. A pochi metri di distanza, friggitorie improvvisate friggono il pesce ancora vivo, mentre i clienti aspettano con l’acquolina in bocca.

Ho lasciato Kochi con il desiderio di rimanervi e la volontà di tornarvi. E una città bellissima, pacifica, colta, adatta a tutti i viaggiatori indipendenti, giovani e anziani. Che fa pensare. E che rigenera.

 

Fotografie di Massimo Pacifico