Venezia: il racconto di Berengo Gardin

Gianni Berengo GardiniGianni Berengo GardiniMarco D'AnnaGianni Berengo Gardin@Hugo Pratt

Un fotografo e la sua città, un racconto di parole e immagini della Venezia di Gianni Berengo Gardin, che iniziò la sua carriera realizzando campagne fotografiche per i libri del Touring Club Italiano

 Gianni Berengo Gardin è il fotografo che ha realizzato più libri. Oltre duecento. Nove solo su Venezia. L’ultimo, Il gioco delle perle di vetro, (edito da Rizzoli/Lizard, pag. 176; 35€) pubblicato con il fotografo Marco D’Anna e lo scrittore Marco Steiner sulle tracce, in laguna, di Hugo Pratt e Corto Maltese. Lo incontriamo nella grande mansarda dove lavora a Milano, tra modellini di gondola del museo navale, macchine da scrivere e, ovvio, macchine fotografiche.

Come mai un altro libro (il nono) su Venezia?
«Ci siamo trovati una volta con Marco D’Anna e mi ha detto: vorrei fare qualcosa su di te. E pensa e ripensa ho detto: perché non facciamo qualcosa sui luoghi dove ha vissuto e lavorato Pratt? E allora, presi dall’entusiasmo siamo partiti per Venezia. Io fotografavo Venezia, D’Anna fotografava me, Marco Steiner, erede di Pratt, scriveva i testi».
Perché proprio Pratt?
«Pratt amava Baron Corvo, uno scrittore inglese che nel 1912 ha scritto un romanzo bellissimo su Venezia. Era un personaggio incredibile. A un certo punto del romanzo ha detto: “per le perle a Venezia c’è un negozio di un certo Berengo Gardin”, in calle Larga, San Marco. Era l’unico riferimento reale nel testo. Ed era il negozio dei miei».
Esiste ancora il negozio di perle?
«No. Vendevamo perle antiche molto care e perle più recenti. Non avevamo le maschere fatte a Taiwan. Il negozio ha chiuso quando sono venuto a Milano a fare il fotografo. I clienti erano americani, inglesi, più stranieri che italiani. C’era un turismo colto, meno becero. Adesso per trovare un po’ di autenticità bisogna andarci d’inverno, con le nebbie. San Marco: vederla, ma fuggire subito. Poi stare nei quartieri periferici,  al ghetto, sulle isole».

Conoscevi Hugo Pratt?
«Eravamo amici e abitavamo tutt’e due al Lido. Questo è il vicolo dove abitava, prima di trasferirsi a Malamocco, una frazione del Lido. Uno dei posti che amava di più era l’Arsenale. Andava sempre al Caffè Florian. Al Florian
ho fatto la foto dove si vede il ritratto del Doge che ha combattuto i Turchi e sotto una cliente con il velo. Ci sono anche foto d’epoca. Questo è un palazzo veneziano con ancora le barche da morto. Una tipologia scomparsa. Neanche al museo navale esistono più. Sono scomparse verso la fine del ‘900».
Sei nato a Venezia?
«Sono nato per caso a Santa Margherita Ligure, dove mia madre aveva un albergo. Mio papà era veneziano, i miei figli sono nati a Venezia, io fin da piccolo ho abitato a Venezia».
Torni spesso?
«Non ho più casa, non ho più parenti né amici, ma vado spesso. È ancora un piacere anche se ormai è una macchina da turismo. Sono rimasti solo 43mila abitanti».
Come nasce la polemica sulle navi da crociera?
«Mi ha colpito l’inquinamento visivo: navi alte il doppio
di Palazzo Ducale. A Venezia sarebbe proibito costruire palazzi di più di quattro piani, le navi ne hanno più di otto».
Veri abusi edilizi galleggianti. Soluzioni?
«Esiste un comitato no-grandi navi. Anche se il sindaco dice il contrario, il comitato vuole che le navi facciano un altro giro evitando il bacino di S. Marco. Ho fatto delle foto sulle navi a Venezia. Repubblica le ha prese ed è nato il caso. Il sindaco ha vietato la mia mostra, sostenendo che denigrava Venezia. Me ne ha dette di tutti i colori. In un primo tempo ci sono rimasto male. Sbagliavo. In questo modo ne hanno parlato in tutto il mondo».
Come mai hai pubblicato tutti questi libri?
«All’inizio perché non avevo alternative. Dovevo campare. I giornali non volevano le mie foto. Dicevano che i lettori non le capivano. Sono riconoscente al Touring Club con cui ho fatto 15, 20 libri almeno: Italia, Inghilterra, Svezia. Quello sull’Inghilterra è il mio libro più riuscito. Altri tempi. Stavamo in giro un mese, un mese e mezzo. Mi ero da poco trasferito a Milano. C’era un dito di polvere nera sulle macchine, i riscaldamenti erano a carbone».

Foto di Gianni Berengo Gardin e Rizzoli/Lizard