di Tino Mantarro
Intervista all'antropologo Adriano Favole in occasione di Dialoghi sull’uomo, festival di antropologia del contemporaneo di Pistoia che si terrà a fine maggio
Ci sono festival culturali che cercano di essere un qualcosa di più che un momento piacevole in cui si va a sentire un autore famoso. Impongono una riflessione. Propongono un tema, invitano i relatori a condividere i loro pensieri e gli spettatori a riflettere. Dialoghi sull’uomo, festival di antropologia del contemporaneo di Pistoia è uno di questi momenti in cui si fa cultura e non semplici presentazioni. L’edizione di quest’anno (28-30 maggio, vedi pag. 83) ha come tema: “Rompere le regole: creatività e cambiamento”. Adriano Favole (nella foto), antropologo dell’Università di Torino e consulente del festival, per quest’edizione ragiona sul «viaggio, inteso come rottura delle regole», argomento di un libro in uscita per Utet. «Siamo e siamo sempre stati in perenne ricerca di una via di fuga, un modo per eludere e superare le regole che il vivere sociale all’interno di una data comunità impone» spiega Favole a Touring. «Le culture in cui viviamo ci forgiano, alcuni regimi coercitivi cercano addirittura di inchiodare i propri cittadini impedendo loro di muoversi, eppure l’uomo ha sempre cercato una via di fuga, reale o simbolica per rompere la crosta della quotidianità, per creare nuovi legami e trasformare la propria cultura. Anche perché una società chiusa cadrebbe in contraddizione».
Per questo il movimento, il viaggio, c’è sempre stato e non solo per motivi utilitaristici. «Come racconta Bronisław Malinowski, gli abitanti delle isole Trobriand – al largo della Nuova Guinea – si scambiavano oggetti del tutto inutili come collane di conchiglie rosse e bracciali di conchiglie bianche. Non avevano valore economico ma erano simbolicamente fondamentali, e per scambiarsele durante il cerimoniale del kula (la cerimonia dello scambio) intraprendevano lunghi viaggi in piroga tra un’isola e l’altra» prosegue. Eppure tendiamo a vedere il movimento come una caratteristica propria della contemporaneità. «Ma nel farlo dimentichiamo che il viaggio è anche un’esigenza dell’essere umano, in qualunque momento storico e a qualunque latitudine. Il viaggio è sempre stato salvifico, è servito per andare oltre la propria cerchia ristretta trasformando forme e culture in un processo continuo di creazione culturale che è poi l’argomento di studio dell’antropologia. Anche quelle culture che erroneamente abbiamo creduto più chiuse e stanziali erano aperte al viaggio, inteso come istanza di cambiamento e innovazione».
Ne è un esempio uno dei terreni di studio di Favole, l’isola di Futuna, territorio a metà strada tra le Fiji e le Samoa, oggi amministrato dai francesi assieme l’isola di Wallis. Circa 50 chilometri quadrati e tremila anni di cultura, un posto remoto, dove ogni albero ha enorme significato simbolico. «Un universo che si pensava chiuso ai viaggi, eppure i primi esploratori occidentali lo raccontano in preda a quella che i missionari chiamavano “la malattia pestilenziale del viaggio”. I nativi scavavano piroghe nei tronchi pur di avere la possibilità di fuggire, andare altrove a vedere, provare. Questo per dire che le frontiere sono sempre state aperte: muoversi è esigenza di ogni popolo in ogni luogo».
Ma muoversi non serve solo per conoscere l’altro e l’altrove, è anche un mezzo per conoscere se stessi, spiega Favole. «Pensiamo ai pellegrinaggi, una costante di ogni popolo, quale che sia la sua religione: che cosa sono se non un momento in cui l’uomo abbandona il luogo conosciuto, intraprende un periglioso viaggio in territori ignoti e spesso ostili per visitare luoghi altamente simbolici per affermare la propria appartenenza a un gruppo accomunato dalla religione?». Così siamo di fronte all’apparente paradosso che per definire l’identità si deve uscire da sé, confrontandosi con gli altri. «Apparente, perché il confronto figlio di ogni viaggio è elemento fondamentale per l’evoluzione delle società e delle persone. Partiamo e andiamo altrove per guardare gli altri vivere, nel farlo portiamo appresso la nostra cultura, ma scegliamo anche di abbracciare qualcosa di diverso. Questo processo aperto di incontro, contaminazione e cambiamento, è un processo creativo che serve a rompere le regole e cambiare lo stato delle cose». Così – racconta Eric Leed ne La Mente del viaggiatore – se decidiamo di tornare per riabbracciare quel che abbiamo lasciato, saremo comunque cambiati, e contribuiremo a cambiare quel che stiamo riabbracciando. L’antropologia – e i festival di antropologia – servono a questo: valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità. Il viaggio è un momento creativo: l’inizio di un cambiamento, è un peccato stare fermi.