di Maria Pace Lucioli Ottieri
Era il decumano maggiore della Neapolis greca: ora via dei Tribunali, da Castel Capuano a piazza Bellini, è la strada vetrina, specchio della città, e riunisce i monumenti e i luoghi più belli del centro storico
Se avessi solo un giorno per visitare Napoli, mi dedicherei a via dei Tribunali dove si concentrano molte delle chiese, dei palazzi e dei luoghi più belli e antichi della città. La strada corrisponde al decumano maggiore di Neapolis, la città greca (in realtà quindi una plateia, ma si usa decumano, romano) e attraversa per un chilometro come una freccia il centro storico: deve il nome al famoso viceré Don Pedro di Toledo che decise di trasferire vicino a Castel Capuano i cinque tribunali della città, suscitando allarme nel popolo che vedeva come una minaccia la riunificazione dei palazzi di giustizia. Era stato chiamato a Napoli da Carlo V e nel giro di pochi anni trasformò e fortificò la città devastata dalla peste e dalle scorrerie dei pirati.
Cominciamo a percorrerla proprio dal suo capo vicino al severo e imponente castello. Appena imboccata, nel cinquecentesco palazzo Ricca ha sede l’Archivio storico del Banco di Napoli, 450 anni racchiusi nei documenti che attestano i pagamenti registrati da tutti i ceti e le categorie sociali negli otto banchi pubblici dal 1539: ottanta chilometri di carte e diciassette milioni di nomi nei faldoni dove si può venire a sapere che il principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, pagò 50 ducati di acconto allo scultore Giuseppe Sanmartino per la statua di «Nostro Signore morto, coperta da un velo di marmo», il celeberrimo Cristo velato che si vede nella Cappella Sansevero nei pressi dell’altra estremità di via dei Tribunali (via Francesco De Sanctis 19/21). Un percorso audiovisivo ben fatto ambienta e mette in scena le voci conservate nelle carte dell’Archivio. Pochi metri più avanti si trova un altro cortile di un altro edificio cinquecentesco, uno dei moltissimi palazzi Caracciolo della città, dal magnifico portale gotico. Nessuno può sospettare che al secondo piano, tra gli uffici del Comune, si apra l’immensa sala del Lazzaretto, percorsa per tutto il perimetro da un ballatoio che consentiva agli inservienti di assistere i malati calando loro dall’alto medicine e viveri per evitare il contagio. Al piano terra, medici e infermieri si proteggevano dalle malattie indossando una maschera con un lungo naso adunco riempito di erbe e sostanze che si pensava filtrassero l’aria infetta.
Il Lazzaretto faceva parte del complesso di S. Maria della Pace, la chiesa e l’ospedale dei frati Ospedalieri di S. Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli. Alla misericordia si ispira nei primi anni del Seicento l’istituzione del Pio Monte della Misericordia, fondato nella piccola piazza Riario Sforza da sette giovani aristocratici napoletani per assistere i poveri della città, opera che continua anche oggi con asili e poliambulatori.
La chiesa del Pio Monte della Misericordia, uno dei gioielli barocchi della città, ospita sull’altare maggiore Le sette opere di Misericordia, il capolavoro del primo soggiorno di Caravaggio a Napoli. Gliela commissionarono come pala d’altare i fondatori del Pio Monte per rappresentare le opere di carità: le sei enunciate da Cristo nel Vangelo secondo Matteo e la sepoltura dei morti che a seguito della recente carestia era un problema cruciale. Il quadro, immenso, vorticoso, perturbante, coglie lo spirito spregiudicato della città secentesca, che era allora la più popolosa d’Europa dopo Parigi. Spirito che si ritrova nell’interessante Quadreria del Pio Monte, al primo piano. Di fronte svetta un obelisco scolpito da Cosimo Fanzago, la cosiddetta Guglia di S. Gennaro, unico ex voto collettivo eretto dalla città nel 1631 per ringraziare il santo di aver protetto Napoli dalla terribile eruzione, una delle più esplosive della storia del Vesuvio.
Attraversiamo ora via Duomo e proseguiamo lungo via dei Tribunali. Fermiamoci in piazza S. Gaetano dove c’è uno degli ingressi alla Napoli sotterranea, qui sotto infatti si trovavano l’Agorà greca e il Foro romano: da una parte si staglia la mole della basilica di S. Paolo Maggiore nella cui facciata sono incastonate due colonne corinzie del tempio dei Dioscuri, e dall’altra la basilica di S. Lorenzo Maggiore, uno dei capolavori del gotico in Italia. Pare che proprio in questa chiesa Giovanni Boccaccio si sia innamorato di Maria d’Aquino, la Fiammetta del Decameron, figlia di Roberto d’Angiò, durante la messa del sabato santo del 1334. Nove anni dopo Francesco Petrarca soggiornò nel convento annesso alla chiesa, lo si sa da una lettera all’amico Giovanni Colonna in cui descrisse il maremoto che si abbattè in quei giorni su Napoli. Le radici di S. Lorenzo affondano nella Neapolis greca su cui sorse nel VI secolo la basilica paleocristiana. Solo nel 1234 fu sostituita dall’attuale complesso che Carlo d’Angiò fece costruire cinquant’anni più tardi da architetti e maestranze francesi. Sotto alla chiesa sono stati rinvenuti i resti di un edificio risalente alla dominazione normanna, a loro volta sorti sul complesso romano e sul macellum cioè il mercato, del I secolo d.C.
Nessuna città è stratificata come Napoli e S. Lorenzo Maggiore ne è uno degli esempi più fulgidi. Danneggiata da terremoti e più volte ricostruita, ha continuato a essere al centro della storia della città: il chiostro divenne deposito di armi dei vicerè spagnoli, il campanile fu assediato dal popolo nella rivolta contro Pedro de Toledo e occupato dai seguaci di Masaniello come avamposto di artiglieria contro gli spagnoli. Subito dopo il campanile c’è la via dei presepi, via S. Gregorio Armeno; a destra invece, in vicolo Cinquesanti, nel basso del signor Vittorio, sotto il suo letto, si accede da una botola ai resti del Teatro romano dell’Anticaglia dove si esibì Nerone.
Al numero 339 di via dei Tribunali c’è il Palazzo dell’imperatore di Costantinopoli, l’abitazione di architettura gotica di Filippo d’Angiò, principe di Taranto e imperatore di Costantinopoli, al quale era stato donato nel 1295. Nella penombra dei suoi portici si celano negozi di formaggi, di carni, di verdure, piccole trattorie, bancarelle, in un’atmosfera rimasta molto simile a quella del Seicento. Il palazzo conserva il portale più antico di Napoli sormontato dai gigli dello stemma angioino e, in alto a sinistra, un affresco del Trecento della Vergine.
La chiesa di S. Maria del Purgatorio ad Arco, anche detta delle Capuzzelle, è una delle più spaesanti e nello stesso tempo tipiche dello spirito della città. Negli stessi anni in cui nasceva il Pio Monte della Misericordia, alcune famiglie aristocratiche di Napoli fondarono una congregazione laica che si proponeva la cura delle anime del Purgatorio. Fecero erigere a questo scopo una chiesa concepita fin dall’origine su due livelli: uno superiore, rigogliosamente barocco, per i vivi, l’altro inferiore, a cui si accede da una botola come se si scendesse agli Inferi, creato per ospitare i defunti. Attraverso delle grate i passanti possono guardare nell’ipogeo e pregare per le anime anche dalla strada. La tradizione vuole che tutti i crani tenuti e accuditi qui siano appartenuti a marinai, appestati e sventurati che vagano tra le fiamme del Purgatorio alla mercé delle cure e delle preghiere dei vivi, i soli capaci di restituire loro la pace in cambio della quale le anime offrono la loro protezione. Via dei Tribunali sta per sfociare, come un fiume, su piazza Bellini.
C’è ancora una sorpresa. Al numero 37, il portone del palazzo Spinelli di Laurino nasconde uno straordinario cortile a pianta ellittica unico a Napoli, dove ʼo luogo, il cortile, è sempre circolare o rettangolare, e una scala a doppia rampa, una delle molte magnifiche scale disegnate dal Sanfelice, sulla quale si aggirerebbe il fantasma inquieto di Bianca, giovane murata viva per gelosia dalla padrona Lorenza Spinelli.
Degna conclusione dell’itinerario in via dei Tribunali, sul lato opposto del marciapiede, ecco al numero 32 le insegne della pizzeria Gino Sorbillo, una tra le più celebri della città, aperta nel 1935 da Luigi e Carolina Sorbillo, genitori di ventun figli, tutti, nessuno escluso, pizzaioli. Gino, il solo rimasto nella stessa strada delle origini, è uno dei nipoti.