Mappe. Cerco un centro...

La nostra rappresentazione del mondo ha la forma di una mappa: quella del planisfero che abbiamo studiato fin dalle elementari. Ma quel sistema di proiezione non è per niente l’unico possibile...

 Alle scuole elementari, dietro la cattedra della maestra, accanto alla lavagna, faceva bella mostra di sé un grande planisfero. Era leggermente arricciato in basso, quasi che il legno che doveva fare da contrappeso per tenerlo diritto non riuscisse a fare il suo mestiere. Per il resto era bellissimo. Si passavano ore e ore a fissarlo rapiti. Lì, in alto a destra, c’era ancora l’Unione Sovietica e occupava una bella fetta colorata di rosa. In basso, tozza, l’Australia; al lato opposto il Cile, allungato come il collo di una giraffa. Da allora il mondo me lo sono sempre immaginato così. Del resto il geografo Franco Farinelli è categorico: «Ancora si crede che la mappa sia la copia della Terra senza accorgersi che è vero il contrario: è la Terra che fin dall'inizio ha assunto, per la nostra cultura, la forma di una mappa».

Poi, crescendo, ho imparato che tutto quello che è rappresentato su quel planisfero scolastico è falso. O meglio, è parzialmente vero. Vero nella misura in cui quella rappresentazione della superficie terrestre su un piano cui siamo abituati è frutto di un’idea del mondo assai parziale: la nostra. Forgiata su una visione spaziale del pianeta e su una concezione matematica della sua rappresentazione che ha preso piede in Europa a partire dal Cinquecento. Quel planisfero delle elementari è figlio di una visione del mondo derivata dalla proiezione cilindrica centrografica modificata di Mercatore, dal nome del geografo e cartografo fiammingo Gerhard Kremer che l’ha proposta nel 1569. Una rappresentazione che tendiamo a vedere come l’unica possibile, e mette noi, la vecchia cara Europa, al centro. Del resto, la geografia è come la storia: la scrivono i vincitori. Per cui la rappresentazione di Mercatore, che fa dell’Europa il baricentro dei sistemi di rappresentazione cartografici e dunque l’ombelico del mondo, va per la maggiore. E da quella visione dal sapore vagamente coloniale non ci siamo più mossi.

Eppure le possibilità di una rappresentazione alternativa sono molteplici. E non si tratta di uno dei tanti sistemi di proiezione diversi – da Peters “alla proiezione interrotta di Goode” – che rendono più o meno giustizia alle proporzioni dei continenti e allo schiacciamento dei poli. Piuttosto del punto di vista, ovvero dell’occhio di chi disegna le mappe che utilizzano la proiezione di Mercatore. Occhio che è sempre strabico, anche se gli antropologi preferirebbero definirlo etnocentrico. Occhio che pone noi, l’Europa, piccoli eppure grossi, al centro e in alto. Gli altri ai lati. Occhio che in altri tempi si sarebbe detto colonialista, ma che oggi – finalmente ne siamo consapevoli –non è certo l’unico punto di vista possibile

In Brasile da qualche tempo va di moda un modo di dire “politically correct”, per cui non si dovrebbe più parlare della scoperta del Brasile per il viaggio di Pedro Álvares Cabral, colui che per primo – il 22 aprile del 1500 – avvistò le sue coste, ma di achamento do Brasil, qualcosa che si può tradurre come “pensamento”. Perché prima non è che non esistesse il continente americano, c’era eccome, solo che gli europei non l’avevano ancora conosciuto e dunque pensato. Se l’importanza delle giuste parole, e il relativismo che ne consegue, è cosa ormai assodata, un po’ meno lo è l’importanza di un’equa rappresentazione cartografica. Eppure se le scuole elementari invece di frequentarle in una scuola di provincia in Italia le avessimo frequentate in un qualsiasi villaggio della Cina quel planisfero sarebbe stato diverso. Fatta salva la rappresentazione ispirata a Mercatore – importata in Cina dal gesuita Matteo Ricci – l’Italia sarebbe stata un puntino piuttosto esile all’estrema sinistra della mappa. Mentre al centro lo sguardo sarebbe stato attratto da una immensa raffigurazione della Cina. Così da tener fede, anche cartograficamente, al suo nome in mandarino: 中華, Zhōnghuá, il Paese di mezzo.

Non si trova invece sulle pareti delle scuole australiane la mappa downunder – il planisfero rovesciato con l’Australia in alto – creato nel 1979 dal geografo Stuart McArthur per render giustizia a quella che, a suo dire, era una secolare ingiustizia. Sulla scorta di queste rappresentazioni alternative sono poi nati planisferi che al centro pongono di volta in volta il Pacifico, oppure gli Stati Uniti. E, almeno potenzialmente, tanti altri potrebbero essercene. Una babele senza costrutto che rende impossibile la condivisione? Non proprio. Piuttosto la consapevolezza che il centro del mondo sta negli occhi di chi guarda, occhi che non sono per forza i nostri. Un modo per decolonizzare anche il sapere geografico.