di Andrea Forlani | Fotografie di Andrea Forlani
Phú Quốc, la più grande isola vietnamita, si sta trasformando in una Mecca del turismo balneare. Ma basta girare un poco per scoprire ancora la sua caotica, affascinante, anima asiatica
Una spuntatina qui, zac. Un’aggiustatina lì. Zac, zac, zac. Il tempo scivola lento dal barbiere del villaggio. Sopra il grande specchio le foto sbiadite con tagli da uomo piuttosto arditi, sul bancone di legno bianco e sbrecciato, due paia di forbici, un pettine, uno spruzzino, un rasoio, un porta incensi e due statuine di quello che sembrerebbe Confucio. Sulla sedia reclinata, di vinile nero, l’unico cliente sonnecchia beato mentre ciocche di capelli planano silenziosamente a terra. La quiete s’interrompe al passaggio di due scolare in uniforme bianca. Sorridono con un moto di stupore e corrono verso casa. Non capita tutti i giorni di incontrare un forestiero, da queste parti. Non ancora, almeno. Poi, per un istante, il sole si spegne, oscurato dal passaggio di una cabina arancione. Viaggia a 30,6 chilometri l’ora e appartiene alla cabinovia più lunga del mondo, lunga la bellezza di 7.899,9 metri. E quel virgola nove è importante, che i vietnamiti ci tengono al loro record. Soprattutto perché qui non siamo sulle Alpi, e nemmeno sui Pirenei, anche se a costruirla è stata l’azienda austriaca Doppelmayr con il contributo della sede altoatesina di Lana. E a bordo non ci sono sciatori in giacca a vento, ma gitanti in bermuda che si godono un grandioso panorama sulle onde sottostanti durante i quindici minuti di tragitto.
La cabina arancione vola, infatti, sul golfo di Thailandia e collega l’isola vietnamita di Phú Quốc, la più grande del Paese, a quella di Hon Thom, più conosciuta come Pinapple Island (l’isola degli ananas), dove stanno dando gli ultimi ritocchi al Sun World Hon Thom Nature Park. Un parco divertimenti con spiaggia, sport acquatici, ristoranti, e un improbabile e rumoroso corpo di ballo russo ad allietare gli ospiti. La cabinovia è il segno più vistoso di cosa stia accadendo Phú Quốc, l’isola dove il governo vietnamita, affiancato da un gruppo di investitori internazionali, ha deciso di trasformare questa fetta di Sudest asiatico nel più attraente resort del Paese. Per farlo non hanno badato a spese: sette miliardi di euro di investimenti, centinaia di cantieri aperti, un aeroporto che a regime sarà in grado di gestire 7,5 milioni di passeggeri l’anno. Di sicuro c’è che in un prossimo futuro il volto e la vita di Phú Quốc cambieranno per sempre. E allora meglio approfittarne e partire adesso, finché convivono il prima, il durante e il dopo.
Ma cominciamo dall’inizio. C’era una volta un’isola a forma di goccia, a sud della costa cambogiana, distante circa 40 chilometri da Ha Tien, la città vietnamita più vicina sulla terraferma. Lunga 50 e larga 25 chilometri, Phú Quốc è attraversata da nord a sud da una catena montuosa nota come i 99 Picchi, altezza massima 603 metri. Per i pescatori di oloturie (o cetrioli di mare) che la abitavano, tutto filò tranquillo sino al Settecento, quando l’isola finì nel gorgo della geopolitica internazionale. Ci misero il naso un po’ tutti: i francesi, i cinesi e perfino i khmer rossi cambogiani. Dal 1953 al 1975, Phú Quốc ospitò il più grande campo di prigionia del Vietnam del Sud. Che oggi è, suo malgrado, una delle attrazioni del posto e un monito a riflettere sul lato oscuro dell’uomo a qualunque latitudine. Dal serio al faceto con un’altra tappa obbligata per chiunque venga in gita a Phú Quốc: il grande, frequentato e caotico mercato di Duong Doˆng, capoluogo dell’isola. Si volteggia tra i banchi strabuzzando gli occhi di fronte a mosaici di frutta e spezie provenienti da un’altra dimensione: melarose, frutti del drago, rambutan, anacardi e montagne di pepe, vanto dell’agricoltura isolana e di un Paese, il Vietnam, che di questa spezia è il maggior esportatore del pianeta. Poi pesce fresco e secco, molluschi, frutti di mare, salse di pesce (altro vanto gastronomico isolano), conserve misteriose e un milione di prodotti, sostanze e oggetti non sempre di facile identificazione. Suggerimento: il momento migliore per visitare e fotografare il mercato è tra le 6 e le 9 del mattino, quando i turisti sono ancora in albergo ma i commercianti locali in piena attività.
Capitolo spiagge. Qui la situazione è piuttosto fluida, ma il comun denominatore di quelle più scenografiche, curate e linde, è la presenza di un resort nei pressi, meglio se di lusso. Come il ricercatissimo W Marriott a Khem Beach: più che un hotel, un mondo parallelo ambientato senza badare a spese – dall’architetto e designer Bill Bensley – nell’opulenta (così la chiamano) Lamarck University. Il resort si affaccia direttamente su una lunga striscia di sabbia bianca intercalata da rigogliose palme e lambita dal blu dipinto di blu. Stesso dicasi per il raffinato e minimalista Fusion, anch’esso adagiato su una bella lingua sabbiosa e dorata sul versante opposto dell’isola. Ma attenzione: qui, come in tutto il Vietnam, le spiagge sono, per legge, pubbliche anche quando sembrerebbe il contrario. Quindi nessuno scrupolo nel rosolarsi sulla battigia di un hotel in cui non si pernotta: è quel che resta del comunismo. Il problema non si pone sul versante nordoccidentale, dalle parti di Rạch Vẹm: qui per ora niente resort, ma una lunga spiaggia semi-deserta che di nome fa Starfish Beach. Una spiaggia dove si vedono più stelle marine che esseri umani, una vera meraviglia. Alla perfetta cartolina tropicale mancano però le palme sotto la cui ombra proteggersi dal sole battente. Fortuna vuole che un pugno di ristoranti-palafitta appollaiati sulle onde forniscano non solo refrigerio, ma anche birre fresche e vettovaglie.
Per un’appagante esperienza antropologica e fotografica, la parola da segnarsi è Khu 2. Pare il nome di un satellite invece è quello di un piccolo villaggio nei pressi della città di An Thoi, nell’estremo sud di Phú Quốc. Muovendo dal tempio buddista di Chùa Sùng Đức in direzione della spiaggia, ci si infila in un labirinto di vicoletti straripante di genuina umanità. Tra bimbi che saltano, cagnolini che corrono, uomini e donne che armeggiano sotto i nón lá – i tradizionali cappelli di paglia a cono –, con barche, remi, reti e motori. A rendere il tutto ancor più verace c’è anche un po’ di spazzatura, ma da queste parti giurano che col nuovo inceneritore le cose cambieranno. Altro giro, altra corsa, perché a pochi minuti da qui, al porto di An Thoi, si può saltare in barca e puntare sull’omonimo arcipelago, un pugno d’isole e isolotti dai nomi esotici, con spiagge da instagram e paesaggi sottomarini a portata di snorkeling. Dovendo scegliere, Hon Gam Ghi è forse l’isola con il miglior compromesso tra bellezze naturali e quantità di turisti, qui ancora piuttosto sparuti. E allora via, tutti in acqua con maschera e boccaglio, a sguazzare insieme a pesci farfalla, pesci pappagallo, pesci angelo e persino qualche corallo sopravissuto alle razzie dei maniaci del souvenir. E dopo una giornata tra spiagge e nuotate, nulla di meglio che una bella serata di dolce far niente. Anzi no. Perché mentre su Phú Quốc calano le ombre della sera, va in onda nel centro di Duong Doˆng il grande show del mercato notturno, noto come Chợ đêm Phú Quốc. Un quotidiano, sfolgorante e iperturistico caleidoscopio di chioschi, negozi, voci, musiche, ristoranti, insegne che si riversano su Vo Thi Sau street. Si mangiano gamberi e calamari, si comprano perle, si raccontano storie e si scattano selfie. E per concludere la serata ci troveremo, come le star, a bere un cocktail al Rory’s bar. Il più frequentato locale dell’isola è illuminato da romantiche lanterne e i tavolini si sporgono direttamente sulla spiaggia. E osservata da qui, sorso dopo sorso, Phú Quốc è davvero un incanto.