California. Oakland, c'è vita oltre la baia

Andrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea Forlani

Stretta tra Berkeley e San Francisco rischia di passare inosservata. Eppure conserva e coltiva un patrimonio storico e culturale che ha segnato il Novecento, da Jack London alle Black Panthers. Così la città manifesta il suo orgoglio sui muri e per le strade. Da scoprire in bici

Sittin’ on the dock of the bay, watchin’ the tide, roll away, I’m wastin’ time... La baia della canzone di Otis Redding è proprio quella di San Francisco. La osserva annoiato e solitario da una barca ormeggiata di fronte alla città. Forse gli mancava casa (la lontanissima Georgia), forse avrebbe voluto attraccare di là, forse non sapeva bene dove stare (e, considerando che sarebbe morto di lì a poco, non si sarebbe dovuto crucciare più di tanto). La summer of love era appena finita e all’orizzonte si intuiva l’inizio di un’era diversa, meno spensierata, con scontri politici, culturali e razziali che proprio da queste sponde avrebbe contagiato come un virus gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo. Epicentro di questa nuova fase di lotta Oakland, da molti considerata solo la città che ha la vista migliore su San Francisco, nebbia permettendo. Incastrata com’è tra Berkeley, a Nord, e la baia, rischia di passare inosservata. Un altro quartiere di San Francisco, un po’ come se fosse Brooklyn per New York.
Oakland però è una città a sé, con un’identità precisa, con un passato che l’ha messa al centro della storia del Novecento e un presente che la vede tra le destinazioni più interessanti per il 2019 (parola di National Geographic). «Quello è il Laney College, è lì che hanno studiato molte Black Panthers», anche Kevin ci studia e per mantenersi fa l’autista per Uber. La sua criniera di ricci cotonati Seventies dai quali sbuca il manico di un pettine dimostra un rinnovato orgoglio per la causa, nonostante l’attualità sembri virare altrove o forse proprio per quello: «In alcuni momenti sembra di essere tornati indietro di cinquant’anni, ma poi non è così, pensa a Black Panther, il film intendo», nato dal primo fumetto Marvel con supereroe di colore, ha conquistato tre Oscar e la storia inizia proprio a Oakland. Nelle tasche dietro i sedili ha riposto gli ultimi libri di Colson Whitehead (La ferrovia sotterranea) e di Chimamanda Ngozi Adichie (Americanah). Vorrei sapere che ne pensa di entrambi ma siamo arrivati a destinazione: «Prendi i noodles e i ravioli, sono tutti fatti a mano!» urla mentre mi metto in coda da Shandong, evidentemente il miglior ristorante cinese in città, nonché il più generoso in termini di porzioni (l’inevitabile doggy bag sarà poi regalata al senza tetto che bazzica nei dintorni). Si smaltisce inforcando una Ford Bike, sistema di bike sharing i cui stalli sono più o meno ovunque. Quella che a San Francisco viene definita Chinatown qui si chiama, più inclusivamente, Asiatown perché se i cinesi sono stati i primi ad arrivare, nel 1850, a ruota sono stati seguiti da giapponesi, vietnamiti, laotiani e filippini. Non è che abitino tutti nel quartiere, ma qui hanno ristoranti e associazioni culturali, negozi e circoli. Bruce Lee, nato a San Francisco, aprì qui la sua scuola di arti marziali prima di diventare una star del cinema. E l’orgoglio orientale si ritrova tutto sui colorati muri del quartiere che, tra panda, lanterne, geishe e dragoni, sono protagonisti di decine di murales realizzati da gruppi locali come la Dragon School, il Graffiti Camp for Girls e l’Oakland Mural Superhero Project.

Tra gli artisti supereroi David Burke che ha realizzato un’incredibile pittura tra Oak Street e la 4th. L’ha intitolata Love letter to Oakland, una lettera d’amore alla città con protagoniste vecchie e nuove generazioni di creativi e attivisti. Per capire questo amore incondizionato vago in bici senza meta per un po’, nella testa l’infelice e mal interpretata citazione di una oaklander d’eccezione come Gertrude Stein: «There is no there, there», «non c’è un lì, lì». In realtà c’è molto, ma non molto ostentato. C’è per esempio una Oakland di ispirazione vittoriana tra Washington Street e la Broadway (sì, c’è una Broadway anche qui, un giorno bisognerebbe censirle tutte), dove le case di mattoni rossi sono entrate nel patrimonio storico e culturale della città ma ospitano curiosi negozi di design e moda. Più a nord, c’è l’eredità Art Deco del Paramount Theatre, costruito nel 1931 come cinema e ora sede di spettacoli e concerti, del Piedmont Theatre, aperto nel 1917 per i film muti accompagnati da un organo Wurlitzer, del Grand Lake Theatre (1926), un tempo cinema ora sede anche di comizi elettorali, e del Fox Oakland Theatre, del 1928, bizzarro esempio di architettura eclettica che ibrida stile indiano, medievale e arabeggiante tanto che all’inizio lo chiamavano Bagdad. Alla sera, le loro luci un po’ appannate ricordano a tutti che in California il cinema e lo spettacolo sono una cosa seria.
Se Oakland fosse una città già completamente “gentrificata” in coda per prendere i biglietti per il prossimo concerto ci sarebbero solo giovani barbuti o baffuti con magliette a righe e mamme blogger regine dello stile shabby chic (traducibile in elegante trasandato) e della quinoa. Per fortuna la colonizzazione dei rampanti della Silicon Valley non è del tutto compiuta. L’anima black la si coglie mescolandosi nella folla che trascorre la domenica sulle sponde del Lake Merritt. Famiglie che cuociono hamburger e marshmellow, giovani virgulti che fanno acrobazie in bici, musicisti e ballerini che fanno muovere il piede più o meno a tempo anche al più rigido degli astanti. Nell’aria un profumo inebriante ci ricorda che in California la marijuana è legale. L’80 per cento degli adolescenti indossa una maglia di Stephen Curry, campione dei Golden State Warriors, la squadra di basket locale che ha vinto le ultime due finali di Nba e che dovrebbe a breve trasferirsi a giocare a San Francisco (la domanda scatena nervosismo quindi soprassiedo, ma immagino che se venisse detto a un interista o milanista che la loro squadra si sposta a Torino la reazione sarebbe la stessa).

Per levarmi dall’imbarazzo parto alla volta dell’Oakland Museum of California che si trova poco distante. Devo capire meglio perché questa città è così e perché la California è un unicum negli Stati Uniti. L’approccio del museo è innegabilmente cool persino nelle sale che ci si aspetterebbe impolverate e dedicate alla scienza, ai fossili e ai diorami. Diventa ancora più interessante quando si passa alla storia, dai primi insediamenti nativi alla corsa all’oro arrivando fino al boom del cinema (con un laboratorio aperto per imparare a fare il costumista e il rumorista) e alla nuova sezione dedicata al Black Power che non fa sconti a nessuno sui problemi di discriminazione e razzismo che anche la liberal California deve tutt’oggi affrontare. Guardando negli occhi i protagonisti degli scatti della grande fotografa Dorothea Lange esposti nella sezione artistica del museo si vede tutto quello che ha reso mitica la West Coast, nel bene e nel male, nella sofferenza e nel riscatto. E dopo l’esplorazione l’unico souvenir al quale è impossibile resistere è un cero votivo con l’effigie di Michelle Obama. Da accendere in caso di perdita di speranza. Forse di speranza ne era pieno Jack London mentre studiava. Nel 1886 il futuro scrittore aveva dieci anni e viveva con la famiglia a Oakland. In casa l’atmosfera non era un granché quindi per trovare concentrazione optava per un tavolo del pub Heinold’s first and last chance. Ancora in attività, il locale, che si trova in quella che ora si chiama proprio Jack London Square, è minuscolo, di legno e con le pareti ricoperte di foto storiche e manoscritti del grande autore americano. Ha pure il pavimento storto a causa del terremoto che sconvolse la baia nel 1906. Eppure London tornava volentieri in questo posto frequentato da lupi di mare dai quali traeva ispirazione per i suoi viaggi e le sue storie. Fu il vecchio proprietario del pub John Heinold a sostenere i suoi studi a Berkeley anche se dopo un solo anno smise di seguire i corsi. La strada era segnata, avrebbe scritto per vivere. Sittin’ on the dock of the bay, watching the tide, roll away...

Andrea Forlani