Il viaggiatore. Le avventure di Flaubert

In fuga dallo scndalo del romanzo Madame Bovary, lo scrittore sbarcò in Nordafrica per distrarsi e documentarsi per Salambò.

L’ eco del processo a Madame Bovary, accusata di immoralità, non si era ancora spenta quando Gustave Flaubert aveva deciso di lasciare la Francia. «Sono molto contento, vivrò di nuovo a cavallo e dormirò sotto una tenda». Non viaggiava per distrarsi, ma per documentarsi. Aveva trentasette anni e stava già pensando al romanzo successivo, la romantica storia di Salambò ambientata a Cartagine, nel III secolo avanti Cristo. A Skikda, in Algeria, un giardiniere aveva innaffiato un mosaico romano per farglielo vedere. «Faceva un silenzio squisito in quel giardino. Si sentiva solo il rumore del mare». Era rimasto colpito dall’immane burrone che circondava Costantina, «una cosa eccezionale, dà le vertigini». Mentre l’esplorava a cavallo, alcuni avvoltoi volteggiavano nel cielo sopra di lui.

Le moschee erano fresche e silenziose, i fumatori di hashish scheletrici. Giunto in Tunisia dovette constatare che anche lì tutti erano al corrente dello scandalo di Madame Bovary. Nella notte i cani abbaiavano senza sosta per tenere lontani gli sciacalli. Ma, lontano dalle tappe forzate della scrittura, Flaubert cominciava a rilassarsi; andava a letto tardi e si alzava tardi. «Dormo come un sasso, mangio come un orco e bevo come una spugna». Qualche avventura mercenaria non l’aveva distratto dal suo scopo: documentarsi sugli sfondi della storia d’amore tra la bellissima figlia di Amilcare Barca e uno schiavo ribelle. A Cartagine le case bianche risaltavano sulle spianate verdi. Flaubert non si stancava mai di perlustrare il paesaggio. Aveva ucciso a frustate un lungo serpente che si era attorcigliato alle gambe del suo cavallo.

«Conosco Cartagine a fondo, a ogni ora del giorno e della notte». Biserta invece gli era sembrata «una città affascinante, una Venezia orientale semiabbandonata», dove aveva assistito a un singolare spettacolo: i dignitari locali in fila per baciare il palmo della mano del bey turco. A tratti si sentiva lontano da tutto. «Non penso affatto al romanzo, guardo il Paese, ecco tutto, e mi diverto enormemente». A Mez-el-Bab, un villaggio circondato da montagne impressionanti, aveva cercato, senza riuscirci, di trasformare con l’immaginazione le rovine nella città dove dovevano vivere i suoi personaggi. A Le Kef il bagno turco era stato eccellente e la cena araba sontuosa. Al mattino era stato scortato da una pattuglia di cavalieri. In un accampamento erano corsi a baciargli le mani e a toccargli i piedi prima che scendesse da cavallo. «Di che natura era lo strano e inaspettato fremito di gioia che mi ha preso?».

Ogni cosa era nuova e strana. Persino il modo in cui i montoni si proteggevano dal sole mettendosi in fila indiana con la testa contro la coscia di quello precedente. Una notte era stato assediato dalle pulci, «mai viste tante, né così grandi». Al ritorno non era stato facile rimettersi al lavoro. «Il viaggio è notevolmente lontano, dimenticato», ma una cosa era certa: quello che aveva già scritto era «completamente da rifare, o piuttosto da fare. Distruggo tutto. È assurdo! Impossibile! Falso!».

 

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