di Oscar Fremantle | Foto di Massimo Pacifico
A 30 anni dalla sua caduta, la capitale tedesca si prepara a festeggiare la riunificazione ma punta su un futuro accogliente, multietnico, ecosostenibile
Ora è il Muro più diffuso al mondo. I suoi frammenti colorati si trovano nei campus delle università americane, nelle case private di Londra, nei musei, al parlamento di Strasburgo, nei giardini del Vaticano, nel santuario portoghese di Fatima, nella sede della Cia a Washington... Ma esattamente trent'anni fa il suo cemento armato lo teneva saldamente in piedi in tutti i suoi tre metri a separare in due Berlino. Poi in quell’estate e nell’autunno dell’89, come nel film L’era glaciale, una piccola crepa in Ungheria, al confine con l’Austria, e così via fino a dilagare, quel fatidico giovedì 9 novembre dell’89. Prima da Bornholmer strasse, poi da Checkpoint Charlie, dalla Porta di Brandeburgo e dagli altri 71 varchi tra le due città, timidi poi sempre più rassicurati, cittadini di Berlino Est attraversarono (e rientrarono la sera carichi di esotiche banane) sotto gli occhi smarriti e incerti dei Vopos, la polizia di frontiera della Ddr, quel muro che dal 13 agosto del 1961, per 28 anni, 10mila e 957 giorni, li aveva separati dalla libertà. Che quella sarebbe stata la stagione decisiva per die Wende, il cambiamento, e che la famigerata Cortina di ferro (definita così da Winston Churchill nel 1946), traballava lo si era capito già da mesi. Tanti segnali che arrivavano anche da Mosca. Così come molti giornalisti occidentali stazionavamo tra Kreuzberg e il Mitte in attesa degli eventi. Grazie a Walter, un collaboratore berlinese che ci faceva da guida, facevamo anche delle puntate a Est per tastare il polso della situazione, subendo la rigida trafila dei controlli, perquisizioni, visti, bolli, specchi, telecamere, sguardi severi, facce impenetrabili prese pari pari da Le vite degli altri, e ci davamo appuntamento al caffè Sybille, un locale alternativo sulla Karl Marx Allee ancora oggi in grande spolvero. Passare in pochi metri dalle mille luci della KaDeWe, dall’elegante passeggio sulla Ku’damm e dalle dolci tentazioni della pasticceria Kanzler al grigio spento dei tristi cortili di Prenzlauer Berg, al sinistro sferragliare dei tram anteguerra, alle luci fioche di interminabili viali, al silenzio dei frettolosi e freddolosi passanti infagottati in informi cappotti era uno shock. Poi improvvisamente il 4 novembre sulla enorme Alexanderplatz, il cuore politico del regime di Pankow e di Berlino Est, cominciarono a riunirsi delle persone. Nel giro di poche ore erano diventati quasi un milione i manifestanti che esternavano il loro scontento. Era il segnale che si aspettava. Così cinque giorni, o meglio cinque notti dopo, il Muro che separava l’Europa, da Stettino sul Baltico fino a Trieste, inavvicinabile pena il rischio di essere uccisi, fu scalato da centinaia di berlinesi festanti, ripreso dalle tv di mezzo mondo: persino Dan Rather, mezzobusto principe della Cbs trasmise la sua cronaca, in un elegante impermeabile Burberry dal tetto dello studio mobile di fronte alla Porta di Brandeburgo illuminata dai riflettori. Nel giro di poche settimane il Mauer divenne irrilevante politicamente, e presto preso a picconate per essere alla fine trasformato in mille souvenir.
Siamo tornati a Berlino 30 anni dopo per vedere che cosa sia rimasto di questo lungo blackout della storia, e verificare come questa presenza, ora assenza, del Muro sia incisa nella vita di questa metropoli multiculturale che ospita nei suoi quartieri oltre 190 etnie diverse. Il Muro, che in alcuni tratti è ancora in piedi, rimane solo come attrazione turistica (così come i patetici tour a bordo di carovane di puzzolenti Trabant, l’utilitaria dei berlinesi dell’Est che per assicurarsela dovevano anche aspettare anni) ma anche come emozionante memoriale per ricordare le centinaia di berlinesi che, con ogni mezzo, hanno cercato di attraversarlo, scavando tunnel, costruendo aerei leggeri, a nuoto, nascosti nel vano motore delle auto e nelle valigie; molti con successo ma altri (almeno 140 secondo i dati ufficiali) pagando con la vita il loro desiderio di fuga. Il muro resiste nel Mauer Park, accanto al mercatino delle pulci della domenica, si snoda lungo la famigerata Bernauerstrasse, dove c’è la statua che ricorda la fuga del diciannovenne Conrad Schumann guardia di confine dell’Est che, fucile in spalla, scavalcò il filo spinato il 15 agosto del 1961. Poi si ritrova lungo il fiume Sprea, all’altezza dell’Oberbaumbrucke, altro storico passaggio di confine tra Est e Ovest, dove è dipinto da centinaia di graffitari di tutto il mondo. Un altro tratto ancora è nel quartiere turco di Kreuzberg, un altro infine vicino al mitico punto di passaggio Checkpoint Charlie, assalito quotidianamente dai turisti. Per ritrovare intatto quel mondo della Guerra fredda, quell’atmosfera da foggy bottom, basta andare al museo della Stasi, la polizia segreta della Ddr o prendere un treno fino alla vicina Potsdam. Accanto al palazzo di Cecilienhof dove si tenne nel luglio del 1945 la conferenza tra i vincitori della seconda guerra mondiale per definire il nuovo ordine (era l’unico palazzo rimasto in piedi dopo i bombardamenti della capitale tedesca), si trova il Glienicker Brücke sul fiume Havel, il famigerato Ponte delle spie. Qui venne scambiato tra i tanti, anche l’agente dell’Est Rudolf Abel con il pilota americano Francis Gary Powers, episodio raccontato dall’omonimo film di Steven Spielberg. Più difficile invece ritrovare quell’atmosfera unica che si viveva prima della caduta quando la città, completamente circondata dalla Ddr, fu per trent’anni un avamposto dell’Occidente ed era meta di bohemien, alternativi, giovani tedeschi esentati così dalla leva obbligatoria e di universitari finanziati dalla Germania Ovest pur di trattenerli lì.
Ma se quel mondo è definitivamente tramontato e l’euforia seguita alla riunificazione delle due Germanie si è presto spenta al confronto con la dura realtà quotidiana, Berlino come la Fenice in questi anni sembra rinata ancora una volta a nuova vita. Passeggiando, andando in metro o pedalando in bici lungo le decine di vere piste ciclabili che l’attraversano, sia negli ex quartieri popolari a Est sia nella borghese Charlottenburg, nella parigina Savignyplatz, al parco del Tiergarten come nell’ex storico aeroporto di Tempelhof, trasformato in un enorme parco pubblico e le piste in ciclovie, al mercatino trendy della piazzetta di Marheinekeplatz, dovunque, quella che appare con tutti i suoi contrasti e bianchi e neri è l’immagine di una metropoli estremamente viva, ricca di caffè, locali, spazi e gallerie d’arte. Non a caso è diventata uno dei poli di attrazione più ricercati delle nuove generazioni di europei e non solo, un vivace incubatore di start up, la capitale creativa del vecchio continente con oltre 20mila artisti professionisti residenti, una delle città più green del mondo e quella che ha la natalità più alta della Germania. In questi mesi la città si prepara a festeggiare il trentesimo anniversario organizzando decine di eventi tra il 4 e il 10 novembre prossimi: proiezioni multimediali, concerti, letture, performance poetiche e proiezioni di film. Un crescendo che avrà il suo clou proprio la sera del 9 con un mega festival musicale con artisti da tutto il mondo. Ma Berlino non si ferma a guardare il passato: tutta la città è un cantiere aperto e si comincia a intravedere il futuro skyline che si arricchisce ogni giorno di nuovi complessi architettonici, il Jewish Museum di Daniel Libeskind o la prossima sede delle Gallerie nazionali, di Herzog & de Meuron, così come si concluderà finalmente il restauro del castello, ex palazzo reale, poi sede del parlamento della Ddr, e domani Humboldt Forum. Tutta l’isola dei musei infine, patrimonio mondiale dall’Unesco, e oasi che raccoglie dagli inizi dell’Ottocento il meglio dell’arte tedesca e non solo (l’Altes museum, l’Alte e Neues Galerie, il Boden Museum e il Pergamon Museum con le mura di Babilonia e il tempio di Pergamo), sta cambiando faccia e si trasformerà in un unico gigantesco percorso museale. Sono tanti i nuovi muri a Berlino, spesso trasparenti e fatti per unire non più per dividere.