Sal, bianca, rossa e (Capo) verde

Massimiliano RellaMassimiliano RellaMassimiliano RellaMassimiliano RellaMassimiliano RellaMassimiliano Rella

C'è un (insospettabile) contributo italiano – legato all'avvio dei servizi aerei transatlantici – alla storia recente dell'isola di Sal, oggi il polo turistico più importante dell'arcipelago di Capo Verde che sorge circa 500 chilometri a ovest delle coste africane del Senegal.

La Storia è piena di storie che nutrono l’esistenza e anche una piccola roccia rossa piantata nell’Atlantico può avere la sua parte nello spettacolo della vita. Soprattutto se quella roccia si chiama Sal, sassi vulcanici di primordiale bellezza che con altre dieci isole, cinque isolette e una manciata di scogli, forma l’arcipelago di Capo Verde, circa 500 chilometri a ovest dalle coste del Senegal. Qui vive una comunità di oltre duemila italiani, tra imprenditori, commercianti, ristoratori, sportivi, pensionati, che, per una serie di motivazioni ha intrecciato la propria esistenza alle 50mila anime di Sal e alla loro terra. L’isola del resto è imbevuta di italianità. È stata tenuta a battesimo dal navigatore ligure Antonio da Noli, che la avvistò un giorno di dicembre nel 1460, battezzandola all’inizio Llana, “piana”. C’è poi il suo incarnato, naturale evocazione della nostra bandiera: bianco il colore della sabbia, rosso il deserto di Terra Boa al centro, verde l’acqua dell’oceano che lambisce le spiagge. Quindi la lingua. Quasi tutti i salensi parlano senza difficoltà l’italiano sintonizzandosi perfettamente con i “nostri” duemila e con i visitatori che sempre più numerosi approdano sull’isola, la più turistica di Capo Verde, con 11mila posti letto su un totale di 24mila. Sono gli italiani con oltre 60mila presenze l’anno i principali estimatori di Sal, raggiungibile con un viaggio relativamente breve (poco più di sei ore dall’aeroporto di Bergamo Orio al Serio), con una temperatura mite tutto l’anno (dai 22 gradi di gennaio e febbraio ai 30 gradi di agosto e settembre), che profuma ancora d’esotico ed è conveniente per il portafoglio.

A guidare l’avanzata bianca rossa e verde è un imprenditore bresciano, Andrea Stefanina, tra i primi europei ad approdare a Sal a metà degli anni Novanta dando il via al turismo. «Una volta creato il prodotto – ricorda Stefanina – bisognava venderlo, ma gli agenti di viaggio erano scettici sulla destinazione, dicevano che era complicata e selvaggia. Allora ho creato un tour operator ad hoc, CaboVerde time, e tutto è partito». I primi a volare a Sal sono stati i bresciani, concittadini dell’imprenditore, poi è arrivato il resto d’Italia. Attualmente Stefanina, che con i suoi alberghi – e una falegnameria, una birreria e un panificio – dà lavoro a un migliaio di capoverdiani, sta realizzando il suo ultimo resort a impatto zero e punta sul risparmio idrico ed energetico, consapevole che al fragile equilibrio dell’isola più di tanto non si possa chiedere. Non è intervenuto infatti sul punto più antico e spettacolare dell’isola, il cratere delle saline di Pedra de Lume (che dà il nome all’isola, archiviato quello scelto da Antonio da Noli), da lui acquistata nel 1997 per sei miliardi di vecchie lire. Probabilmente, è l’unico proprietario al mondo di un vulcano spento. E intanto all’orizzonte avanzano nuovi imprenditori da ogni parte d’Europa, desiderosi di piantare il proprio “strapuntino” vista oceano e fare business con le concessioni fiscali del governo di Capo Verde, che spinge per raggiungere entro l’anno prossimo il milione di turisti (attualmente sono circa 650mila). Non ultimi, i cinesi, vicini politicamente ai governi dell’arcipelago, che anche a Sal hanno investito milioni di dollari, specie nella costruzione delle infrastrutture.

Il fervore edilizio è ben visibile in prossimità delle coste di Santa Maria. L’interno invece rimane immutabile, marziano. Oltre 20 milioni di anni fa, sotto la crosta terrestre in corrispondenza di Sal c’era un “punto caldo” di magma, che eruttò dando origine alla nostra isola con una montagna al centro. Oggi di quell’altura, nel deserto di Terra Boa, rimangono 406 metri di sabbia e roccia, protetti come un animale in via d’estinzione. Il resto dei materiali eruttati è stato divorato dai famelici venti, come il secco e caldo harmattan che soffia dal Sahara da ottobre a giugno, avvolgendo albe e tramonti di polvere marrone. Il cielo in quei momenti si accende di giallo in contrasto con il verde dell’oceano: un immenso prato in movimento con i pesci al posto delle margherite, come tonni, aragoste, marlin, che ogni giorno sul pontile di Santa Maria e nel villaggio dei pescatori di Palmeria si presentano con guizzi, aromi e colori. L’ambiente naturale da una parte e la speranza – o l’illusione – che si possa costruire una vita più libera, più semplice e meno costosa dall’altra: questi i fattori che hanno indotto i nostri duemila compatrioti a rimanere e imparare una lingua plastica, fatta di carne e di sangue come il creolo, l’idioma del sentimento capoverdiano senza verbi al passato e al futuro perché forgiato sullo stile di vita degli isolani che vivono alla giornata. Ed è buffo imbattersi talvolta in italiani che parlano il creolo mentre i loro interlocutori capoverdiani rispondono utilizzando la nostra lingua.

Molti dei nostri connazionali si sono inventati piccoli business e attività etiche, per proteggere l’ambiente e trainare l’ancora esile economia dell’isola, che vive di turismo e di pesca. Tra questi, Gaia Scalabroni e Elena Musso, che portano avanti un progetto, Djunta Mo Art, per sviluppare un mercato sostenibile nell’arcipelago e valorizzare l’arte, la cultura e l’artigianato locale. Oppure Giada Borghi, che con il marito capoverdiano Djo, campione di kite surf, ha creato una scuola per insegnare ai turisti il kitesurfing e uno stabilimento in uno dei punti più belli dell’isola, Kite beach, che si contende con un altro luogo “magico”, Ponta Petra, i cacciatori di onde provenienti da ogni parte del mondo. Qui, specie tra gennaio e marzo, un insieme di venti oceanici e di correnti origina onde perfette per scivolare e volare sul pelo dell’acqua. Una volta calato il vento, la coppia torna in Italia lasciando le strutture a disposizione dell’associazione SOS Tartarugas, che si occupa di proteggere in quel tratto di spiaggia la covata delle tartarughe Caretta caretta e la corsa al mare dei loro piccoli. Paola Mariani, insieme al padre e al marito ha realizzato invece un giardino botanico, il Viveiro Cabo Verde, uno dei tre dell’arcipelago. Un’impresa titanica visto che a Sal le azaguas, le piogge, appaiono come miraggi due, tre volte l’anno. La gente balla e canta al loro arrivo, ma spesso il terreno è talmente arido che il prezioso liquido non riesce a penetrarlo creando pozze e paludi poco utili all’agricoltura. «Nutriamo le nostre piante attraverso l’irrigazione a goccia con acqua rigenerata e desalinizzata, prodotta da un’impresa spagnola in accordo con il Governo» spiega Paola che ha aperto anche un “asilo” per animali abbandonati o non più graditi ai loro padroni, dove alloggiano più di duecento tra scimmie, oche, capre, pappagalli, iguane.

All’entrata del viveiro, c’è un tappeto di verde che un bambino sta accarezzando con occhi incantati. «Papà, papà – strilla in creolo – nô tá na Merca!» (Siamo in America). Vuole dire che quell’erba l’ha vista solo nei film. E proprio un film è la storia dell’altro tassello di italianità a Sal, il più importante, quello ha dato inizio alla sua recente fortuna. Lo racconta una targa di marmo rosa posta all’uscita dell’aeroporto intercontinentale. La lapide riporta queste parole: «In ricordo delle ali italiane che per prime si posarono sull’isola di Sale per unire popoli e continenti e portare l’amicizia alle genti di Capo Verde». A scriverle è stato il comandante Adalberto Pellegrino, per oltre 30 anni pilota Alitalia e curatore di un libro sul tema (vedi pag. 62), che ricorda: «Dal 1958, ho volato anch’io su Sal e ho ancora negli occhi quella lunga pista color terra rossa sotto di me, quasi immersa nell’Atlantico. Ricordo che sia in salita sia in discesa in cabina si distribuivano ai passeggeri delle caramelle per aiutarli a compensare la differenza di pressione. In realtà, noi dell’equipaggio regalavamo la “razione” di discesa ai bambini di Sal, che ci correvano incontro quando atterravamo. Sono tornato nello scalo con una delegazione di Alitalia, in occasione dei sessant’anni dalla costruzione, e ho raccontato ai presenti quegli episodi. A un certo punto si è avvicinato il governatore dell’isola e mi ha detto: “Lo sa che ad aspettare quelle caramelle c’ero anch’io? Mi sono emozionato”». Un motivo d’interesse in più per un viaggio a Capo Verde e a Sal, piccola roccia rossa nell’Atlantico che condivide con l’Italia un pezzo della propria storia.

Foto di Massimiliano Rella