di Riccardo Morri | Foto di Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto
La nostra era è l'Antropocene, il periodo in cui l'uomo modella il pianeta che succede all'Olocene.
Chi la ignora o la snobba accusa spesso la geografia di essere obsoleta perché superata dall’innovazione tecnologica e non utile, perché non c’è più nulla da scoprire ed esplorare. Come se l’antropologia non avesse più senso di esistere perché «non ci sono più primitivi». Eppure la geografia, come ogni disciplina scientifica, si innova di continuo aggiornando oggetto di studio e linguaggi. E lo fa anche in ragione delle proprie specifiche competenze (il linguaggio della geo-graficità) e dei suoi peculiari ambiti di studio e insegnamento, su tutti il territorio.
In questi ultimi anni si fa un gran discutere del concetto di Antropocene, concetto che si può considerare parte della tradizione geografica, anche prima che venisse coniato il termine. Specie se è inteso come indagine e riflessione sul rapporto tra la specie umana e il pianeta Terra e come tentativo di comprendere e spiegare come abitiamo la Terra trasformando il suo ambiente in paesaggi e territori. Storicamente il termine Antropocene compare in ambito geologico, grazie al biologo Eugene Stoermer e al chimico Paul Crutzen, riconoscendo all’umanità la funzione di forza geologica: le tracce delle sue attività resteranno impresse nelle nuove rocce in formazione, e saranno così conservate per milioni di anni nel ciclo delle forze tettoniche. L’Antropocene è quindi la nuova era geologica, che succede all’Olocene, caratterizzata dall’immensa e ormai irreversibile capacità modellatrice sviluppata dalla specie umana. Ma il dibattito sull’Antropocene è sfuggito rapidamente dall’ambito delle scienze geologiche per coinvolgere tutti gli ambiti del sapere umano, fino alla filosofia e alla letteratura. Perché l’Antropocene è prima di tutto una presa d’atto culturale: un’innovazione nel modo con cui la cultura umana si rappresenta nei confronti della natura e si descrive in relazione all’ambiente terrestre. Una visione della Terra e quindi una geo-grafia, intesa nel suo senso più profondo: un trasferire nel campo del linguaggio, del simbolico, il senso dell’abitare il nostro pianeta.
La trasformazione dell’ambiente in territorio è il primo atto geografico della specie umana, il suo iniziare ad allontanarsi dalla natura per adattarla ai propri bisogni, che si differenziano e mutano con il modificarsi di società e le culture. Mentre le altre specie viventi evolvono adattandosi ai diversi ambienti terrestri, la specie umana è stata capace anche di percorrere la strada opposta, quella di adattare la natura a se stessa. L’Antropocene entra in scena quindi come concetto quando l’umanità diventa consapevole della pervasività del suo impatto sull’ambiente terrestre. Quando impara a vedere nel paesaggio che la natura è stata trasformata irreversibilmente dall’azione umana. Nel bene e nel male, oggi, il pianeta Terra è un territorio e non è più un ambiente naturale. E gli scienziati del territorio sono i geografi. Sono i geografi ad aver sviluppato e definito questo concetto, spesso usato in modo improprio da altre discipline o da politici e opinionisti. Sono i geografi, come Angelo Turco, ad aver sviluppato modelli teorico-metodologici per indagare la territorialità umana. Così attraverso il concetto di Antropocene e quello di territorio, i geografi (come nel caso dell’ultimo libro della collana AiiG di Carocci, a cura di C. Giorda, Geografia e Antropocene. Uomo, ambiente, educazione) investigano il tema della reciproca trasformazione dell’ambiente da parte dell’umanità e dell’umanità da parte dell’ambiente. Non poca cosa, specie per una disciplina che qualcuno – chissà perché – si ostina a considerare superata.
*Riccardo Morri è presidente Aiig e professore di Geografia UniRoma1
**Cristiano Giorda è responsabile formazione Aiig, docente UniTo