di Clelia Arduini | Fotografie di Max Rella
Ai piedi del Gran Sasso e lungo il fiume Tirino, fra grandi parchi nazionali e piccoli borghi. Un itinerario in provincia dell’Aquila dove l’ultima parola spetta alla natura
La canoa segue il flusso del fiume e a bordo la regola è rimanere in silenzio. L’unico rumore è quello della bocca che succhia un sedano d’acqua offerto dalla guida. Ha un sapore inaspettato, di menta e di zenzero. Accade in Abruzzo sul fiume Tirino, un percorso di 15 chilometri tra Capestrano, Bussi, Ofena e Villa Santa Lucia, in cui sembra caduto un barattolo di vernice di quella tinta. A colorare di verde tutto è la vegetazione, sommersa ed emersa: grazie alla trasparenza cristallina del rio, alimentato quasi esclusivamente da acque sotterranee, i raggi del sole penetrano sotto il pelo dell’acqua dando il via alla proliferazione. «Ogni pagaiata ti mette in contatto con il fiume di cui diventi parte» dice Paolo Setta, inventore del “silenzio a bordo” e direttore del settore turismo della cooperativa Il Bosso, che da venti anni con una decina di professionisti (che in estate diventano settanta), promuove in Abruzzo la conoscenza dell’ambiente con attività di turismo sostenibile come l’esplorazione del Tirino in kayak, in canoa, e lungo le sponde su e-bike o a cavallo. Una trota, unica specie ittica del fiume, guizza tra sedani e cannucce, forse consapevole che qui, in parte, si pratica la pesca no kill. Tutto intorno, salici bianchi e pioppi neri si specchiano sul liquido in movimento.
Le parole sono di troppo, rimanere in silenzio viene naturale. Parte da qui l’itinerario Dal Tirino al Gran Sasso, terre di Santi e Guerrieri, circa cento chilometri divisi in dieci tappe, che nasce da EMbleMatiC, un progetto di cooperazione internazionale per sviluppare il turismo sostenibile nell’area del Mediterraneo. Partner per il Gran Sasso d’Italia è il Gal-Gran Sasso Velino, promotore di una rete d’impresa di operatori, tra aziende agricole, agriturismi e ristoranti, che lavora sul territorio per far conoscere un Abruzzo lontano dai soliti circuiti turistici. Sbarcati dalle canoe, ci spostiamo di sei chilometri e in pochi minuti siamo a Capestrano, il regno del principe guerriero, la cui statua è il simbolo della regione e del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga di cui fa parte. La scultura, della metà del VI secolo a.C., fu rinvenuta nel 1934 nella campagna più a valle durante i lavori di dissodamento di un terreno; successivi scavi riportarono alla luce una necropoli con tombe e corredi funerari datati tra il VII e il IV secolo a.C. Ancora oggi l’area continua a regalare sorprese. La statua originale del gigante italico, alta oltre due metri, con un copricapo a disco d’incredibile ampiezza, si può ammirare nel Museo archeologico nazionale di Chieti; mentre una copia, a cui ci si avvicina con rispetto, si erge all’ingresso di Castello Piccolomini, che domina i tetti del borgo fortificato di Capestrano. Di certo il guerriero è la più importante scultura non classica dell’Europa antica.
«Questa terra abitata un tempo dai Vestini è un giacimento archeologico a cielo aperto», racconta il sindaco Alfonso D’Alfonso, il cui sogno è musealizzare l’area della necropoli con percorsi dedicati a studenti, visitatori, turisti
La strada lascia la piana e punta in alto. «A salire c’è più speranza», scriveva Tiziano Terzani. Di sicuro, da quassù, a quota 1400 circa, le cose si vedono in un altro modo. Tra i monti Bolza e Camicia, Castel del Monte è abbracciato a se stesso in un grumo di case, antichi portali, finestre, scale esterne e passaggi coperti (detti sporti) su cui si sviluppano due o più piani abitati. Siamo entrati nel territorio che le fonti storiche dal XIV secolo chiamano Baronia di Carapelle, e dove si produce un eccellente pecorino canestrato. È tutto un fermento di iniziative culturali e sportive, iniziate dall’ex sindaco Mario Basile e tuttora in corso. Sono sette le associazioni, su 420 abitanti, che durante l’anno, specie d’estate, animano la piccola capitale della transumanza, fino all’inizio del secolo scorso cardine dell’economia del territorio. Ci sono pure un museo etnografico diffuso in cinque case che ripropone le tradizioni di un tempo e il teatro comunale dedicato a Francesco Giuliani, un pastore che aveva imparato a leggere e scrivere da solo e nei periodi di custodia del gregge “s’intratteneva” con l’Orlando Furioso e La Gerusalemme liberata. L’itinerario prosegue verso Calascio, a 1210 metri d’altitudine: un intreccio di vie, case, torri in pietra, chiese che testimoniano il tempo in cui anche questo paese apparteneva al ducato di Spoleto e poi alla baronia di Carapelle.
La sorpresa è a tre chilometri in salita. Il cuore si stringe per l’emozione – e per la fatica, che però in estate si può evitare grazie a una navetta elettrica – alla vista di Rocca Calascio e del suo minuscolo castello a quasi 1500 metri d’altitudine: l’archetipo delle fortezze delle favole. Costruito a partire dall’anno Mille, il piccolo maniero è una scenografia naturale che molti registi hanno immortalato nei loro film, tra cui Ladyhawke (1985) e Il nome della rosa (1986). Per il National Geographic è tra i 15 castelli più belli del mondo. A pochi passi è la chiesina di S. Maria della Pietà, eretta nel 1596 sul luogo dove, secondo la tradizione, la popolazione locale ebbe la meglio su una banda di briganti. Sullo sfondo, il tracciato di un tratturo corre verso un tempo lontano, imprigionato nelle antiche pietre. Rocce millenarie dove ogni anno migliaia di turisti si aggrappano per salutare il sole che si butta dietro la cordigliera di monti, tra selfie sempre più numerosi, figli del passaparola sui social network.
Si ricomincia a salire tra i primi paesaggi montani: deserti di neve in inverno, praterie in estate dove Sergio Leone girò molte scene dei suoi film. A 1800 metri si svela lo sconfinato Campo Imperatore, il più esteso altipiano dell’Appennino, base ideale per passeggiate a cavallo e in mountain bike, per lo sci di fondo ed escursioni in quota. Il nome lo scelse l’imperatore Federico II di Svevia, mentre i pastori, che con le pecore e la solitudine lo affollarono in estate, per generazioni, lo chiamavano semplicemente la muntagn. L’esploratore Fosco Maraini lo definì invece il “Piccolo Tibet”. Si sale sul pianoro, a quota 2130, con la funivia che parte da Fonte Cerreto, frazione di Assergi. Qui spuntano l’osservatorio astronomico, dotato di un potente telescopio, e un giardino botanico dedicato alla coltivazione e allo studio della flora d’elevata altitudine. Dall’altra parte l’albergo in cui Benito Mussolini fu tenuto prigioniero nel 1943. L’hotel, dall’inquietante color rosso pompeiano sbiadito, secondo gli accordi per il rilancio e la valorizzazione dell’area dovrebbe diventare un resort a cinque stelle, in realtà è ancora in fase di ristrutturazione.
Tra duci, imperatori, scrittori e costruttori, il vero sovrano è sempre e solo lui, il Gran Sasso, che domina la scena, con la sua vetta più alta, il Corno Grande, e con i suoi meravigliosi scorci, tra laghi, pozze, canyon e fioriture da paradiso terrestre. L’unico punto fermo per i prossimi milioni di anni. A sudest di Campo Imperatore c’è Fonte Vetica, così chiamata per una fonte ai margini di un bosco. Qui sorge un monumento che rievoca la tragedia del 13 ottobre 1919 in cui una tempesta di neve causò la morte di un pastore, i suoi due figlioletti, il cane e il gregge. La madre morì dal dolore. Il biancheggiare delle loro sculture richiama le nuvole che galoppano tra le cime. Si ricomincia a scendere verso il verde, lasciandosi alle spalle la cortina di fumo appiccicoso dei ristori in quota in cui si consumano pire di arrosticini, i leggendari spiedini di carne di pecora: una tipicità del territorio, che da umile pietanza dei pastori si è trasformata in questi ultimi anni in richiestissimo street food. Ma un conto è mangiarla sui Navigli a Milano, un conto in cima all’infinito, tra le vette, i pianori e i pascoli, dove tutto è cominciato.
Ecco San Pio delle Camere, con il sorprendente sito archeologico di Peltuinum (città fondata dai Vestini fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.), la piana di Navelli, dove in autunno nasce l’oro rosso della regione, lo zafferano dell’Aquila dop (vedi pag. 54), con il suo borgo di case grigie sospese a oltre 700 metri su uno sperone roccioso tra la conca dell’Aquila e quella di Sulmona: un’esplorazione tutta in verticale nella fitta rete di vicoli tra archi, gradini, minuscole cappelle, loggiati e quel che rimane di antiche porte di accesso al paese, che oggi sembrano installazioni di arte contemporanea affacciate sull’orizzonte sbiadito. Più in alto di tutti svetta, solitario, un poderoso palazzo baronale del secondo Rinascimento. Di nuovo la valle del Tirino. Tornano i paesaggi consueti, i colori si attenuano e il fiume ricomincia a cantare la musica dell’acqua. E già manca quel desiderio di avventura che certi luoghi, come questa parte d’Abruzzo, garantiscono, nel rispetto dell’ambiente e delle tradizioni. Ripartiamo?