Marche. Cinquanta sfumature di... blu

Affacciato sul mare Adriatico, il promontorio del Conero è una montagna speciale sotto molti punti di vista. Queste sono le sue storie: le storie dei suoi sentieri, delle sue grotte, delle sue acque e dei suoi vini

Il Conero è blu come il mare che lo abbraccia da Nord e da Est; è verde come i prati e i boschi del parco regionale che lo tutela, è bianco come le scogliere di roccia e le spiagge di ghiaia fine. Il suo vino è rosso Conero, il suo tartufo il nero estivo. È un luogo dai mille colori. La costa marchigiana è lunga 173 chilometri e per la maggior parte è bassa e sabbiosa, come tutta la costa italiana dell’Adriatico fino al Gargano. Alle sue spalle, le colline regalano pennellate di verde e punti panoramici suggestivi, come a Cingoli, il “balcone delle Marche”, che a 40 km dal mare domina la costa e l’entroterra fino alle montagne; o come a Torre di Palme, nel Fermano: di origine medievale, sorge a poco più di cento metri di altitudine, ma dal suo belvedere la vista spazia dall’Abruzzo fino al Conero. Già, il Conero. Il promontorio che non ti aspetti, la montagna fuori posto, che spezza la pacata tranquillità della costa con falesie rocciose alte a tratti più di 500 metri. Il Conero protegge a nord il golfo di Ancona, città che vanta una spiaggia in pieno centro storico, il Passetto. Visto dal mare, questo tratto di costa rivela più di cento piccole grotte scavate nella roccia nell’Ottocento e usate in origine come rimesse per le barche. I proprietari sono chiamati grottaroli. Prima che il Comune desse un giro di vite alcune erano utilizzate anche come pied-à-terre dai bagnanti, per una spaghettata in spiaggia, o un pisolino pomeridiano al fresco della falesia. Oltre che al Passetto, le grotte sono presenti in altri tratti del Conero: si calcola che siano cinquecento.

Il promontorio è roccioso ma non è omogeneo: la parte nord è calcarea, e questo spiega perché le scogliere e le spiagge sono bianche; a sud invece è quasi tutta argilla e arenaria. Del resto il Conero ha 200 milioni di anni, come le rocce più vecchie dell’Appennino. Ne ha viste, di cose.
Il Parco regionale del monte Conero nasce nel 1987 e ha una storia lunga e travagliata. In diverse occasioni (l’ultima è del 1992) si arrivò a discutere di ridurne drasticamente l’estensione, da 5.800 ettari a 1.350. Le marce e le mobilitazioni ambientaliste fecero naufragare i progetti.
Nelle Marche in cui si costruiva spesso scriteriatamente vicino al mare, il parco del Conero è diventato un punto di riferimento, un simbolo. «La questione è ancora viva: c’è sempre chi vorrebbe più turisti e meno vincoli a livello urbanistico e ambientale», racconta Pietro Spadoni, guida naturalistica. «Ci sono due modi di scoprire il Conero: dall’alto e dal basso. Numerosi sentieri partono dall’ex convento dei Camaldolesi, a Portonovo, e si affacciano sulla spiaggia e sul mare. Verso sud invece c’è il belvedere di Sirolo, che è bellissimo». La maggior parte delle spiagge del Conero sono libere e non attrezzate, si raggiungono solo in barca o a piedi, attraverso sentieri piuttosto impegnativi. Per percorrere il sentiero che da Sirolo attraversa il Passo del Lupo e poi scende alla spiaggia delle Due Sorelle, una delle più famose del Conero, ci voleva più di un’ora: è stato chiuso perché la gente lo percorreva in ciabatte, e ci sono stati incidenti anche gravi. Ora alle Due Sorelle – la spiaggia deve il nome a due scogli rocciosi simili fra loro che la fronteggiano – si arriva solo in battello. «Qui si fa snorkeling perché sui fondali rocciosi c’è una diversità di ambienti marini affascinanti», aggiunge Spadoni. «Posso dare un consiglio? Ci vuole poco per godersi la bellezza di questi luoghi, a volte basta cambiare gli orari: l’alba e il tramonto sul mare sono unici».

«La spiaggia della chiesetta di Portonovo è la più bella, e ci vanno in pochi; poi c’è la spiaggia di Mezzavalle, molto frequentata dai giovani anche perché la strada per scendere è piuttosto impegnativa, è ripida e ci vogliono buone gambe. Noi? Noi da bambini andavamo al mare per pescare, non per prendere il sole...». Chi parla è Sandro Rocchetti, classe 1939, presidente emerito della Cooperativa pescatori di Portonovo. Sandro è uno degli ultimi pescatori: alla cooperativa sono rimasti in quattro, i giovani preferiscono fare altro. In questa zona i pescatori come lui hanno un primato: sono gli unici in Italia a pescare le cozze selvatiche. Qui sul Conero si chiamano moscioli, ma è lo stesso mollusco che c’è nel resto d’Italia o in Spagna, il Mytilus galloprovincialis. «La differenza – mi dice Sandro prendendomi sottobraccio – è in quello che mangiano. Qui sono più buone perché mangiano alghe fresche. Le cozze sono gli spazzini del mare, filtrano l’acqua, più l’acqua è pulita e meglio mangiano». Assieme allo stocco all’anconetana, la pasta con i moscioli è uno dei protagonisti di Tipicità in Blu che dal 2014 vivacizza Ancona e il suo porto: ogni anno a maggio un finesettimana di incontri, laboratori, mostre e soprattutto degustazioni di piatti tipici. L’edizione 2020 è stata rinviata e c’è tutta l’intenzione di tenerla a settembre. Nell’attesa, i ristoratori hanno cominciato a fare vaschette di sugo ai moscioli da asporto. «Il fatto è che i moscioli sono stagionali: li peschiamo da metà maggio fino a fine ottobre, poi si aspetta la stagione successiva. I migliori sono quelli a media profondità, non troppo vicini al fondo del mare».

Il Conero non è solo blu profondo, è anche, per dirla come Stendhal, il rosso e il nero. Rosso Conero è la doc di quest’area, 400 ettari di uve montepulciano che diventano un vino corposo e strutturato. Nero è il tartufo che proprio qui sul Conero un vignaiolo più coraggioso (o incosciente, come preferite) degli altri ha seminato e con pazienza, raccolto. Racconta Alessandro Moroder, con la moglie titolare a Montacuto, frazione di Ancona, di una delle cantine più grandi del Conero: «Avevamo un piccolo terreno inadatto all’uva, un paio di ettari, così nel 1991 piantiamo le querce e tre varietà di tartufo, il nero estivo, il nero pregiato e il nero moscato. Quando viene coltivato, il tartufo richiede almeno sei anni per poter essere raccolto. Qui invece, niente: le querce crescevano, gli anni passavano, ma di tartufi nemmeno l’ombra. Poi finalmente nel 2004, dopo 13 anni, li abbiamo trovati. Soprattutto il nero estivo. Da quell’anno ci sono stati sempre». Quantità piccole, destinate quasi interamente al ristorante dell’agriturismo. Sul vino invece la produzione è importante, 40 ettari di vigne per produrre soprattutto rosso Conero (doc e riserva). «I nostri antenati vennero qui da Ortisei e fondarono l’azienda agricola nel 1837. La scelta di focalizzarci sul vino è nei primi anni Ottanta». E dieci anni dopo, l’azzardo del tartufo: «Siamo gli unici sul promontorio, ad averlo».

C’è ancora una storia da raccontare, e arriva da Numana, l’ultimo paese (in direzione sud) del Conero. A Numana, in località Marcelli, oggi c’è un hotel che si chiama Marcelli. La proprietaria è Margherita Marcelli e la sua storia è intrecciata con quella del luogo in modo unico. «Mio nonno Nazareno e suo fratello Vincenzo avevano qui delle cave di rena. Nel primo dopoguerra le cave si andavano esaurendo, così mio nonno ebbe la folle idea di mettere giù gli ombrelloni, comprandosi la spiaggia che all’epoca era in vendita. La comprarono lui, un conte di Roma che veniva qui in vacanza e la curia di Loreto. Suo fratello Vincenzo prese la licenza per aprire una pompa di benzina e un negozio di alimentari. E insieme aprirono un ristorante sul mare che nella bella stagione si riempiva di gente». Nel 1959 fu costruito l’albergo. «Il paese ci è nato intorno, letteralmente. E anche il turismo: quando negli anni Sessanta furono costruiti qui un grande albergo e un villaggio vacanze, cominciarono a venire sempre più persone. Ma tutti dicevano “andiamo dai Marcelli” perché noi eravamo stati i primi». Pochi anni dopo la corriera che collegava Numana ad Ancona (che c’è ancora, sul promontorio non passa la ferrovia) aggiunse la fermata “Marcelli”. E così il toponimo divenne ufficiale. «Molti clienti vengono qui da trent’anni, ormai sono di famiglia», conclude Margherita. Anche loro non vanno “a Marcelli”, ma “dai Marcelli”. I colori dell’hotel sono bianco e blu: come la spiaggia di ghiaia fine, come il mare. I colori del Conero. O almeno, alcuni.

Foto di Marco Raccichini