Controcanto. Parthenope

«Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope studiis florentem ignobilis oti»(«In quel tempo me, Virgilio, nutriva la dolce Partenope, per sviluppare, in serenità, arcani studi)» Virgilio, Georgiche, IV 563-564

La sala per le colazioni del Grande Albergo che ancora rifiuta, nell’insegna al terzo piano, di chiamarsi hotel, è un luogo ideale per progettare la giornata. Dai finestroni orizzontali, grandangolo naturale, nella luce abbagliante di Napoli di primo mattino, lo sguardo corre alla via Partenope, al porto marinaro, a Castel dell’Ovo, alla nave ancorata in rada, a Capri, al Vesuvio e alla costa sino alla penisola Sorrentina, acquarello vivente, dominato dall’azzurro del cielo. Perché cercare lontano ciò che è davanti agli occhi: Castel dell’Ovo, la Villa di Lucullo sul mare e sulla terra, dove Virgilio scrisse per quattro anni le Bucoliche e le Georgiche, nella Parthenope di allora, pacificata e serena, chiusa tra l’isolotto di Megaris e il monte Echia, orto naturale protetto dai venti caldi dell’estate. Tra sfogliatelle, babà, pastiera, ricotta, mozzarelline e trecce, trionfi di verdure e frutta di stagione, la Guida Rossa Napoli e dintorni scende nel tempo e nello spazio, alle radici di Virgilio Mago, fondatore di leggende e superstizioni: dell’uovo, che dà nome al castello, inserito in un contenitore rettangolare nelle fondamenta (quando fu distrutta la parte del castello che lo conteneva, la regina Giovanna ne fece riporre uno nuovo per domare una ribellione di popolo); della mosca d’oro, cui insufflò la vita con parole magiche per scacciare i fastidiosi ditteri che infestavano la città (magia che sembra essere stata temporanea); delle due teste, una ridente in entrata e una piangente in uscita alla porta della città, per dare felicità a chi entrava e dispiacere a chi usciva, delle erbe miracolose che guarivano ogni male e del suo potere di rendere vive le cose inerti, come poi sarebbe stato con il sangue di San Gennaro.

Al mare per gioire e al monte per difendersi, così è stato per secoli (sino al triangolo con Castel Nuovo) l’asse perpendicolare al mare dell’isola e dell’acropoli. La roccia è stata rafforzata con la costruzione di torrioni e caserme, alloggi di fortuna e chiese, con l’arco naturale, unico accesso per l’isola dal litorale e un sentiero dalla campagna per Pizzofalcone, essendo tutta la parte verso il mare di roccia scoscesa. I Saraceni arrivarono dal mare e occuparono l’isola, riducendo le difese della città all’acropoli. Nelle stampe del Seicento, nella dizione del linguaggio vicereale, la costruzione rettangolare scrostata e rossastra, che ne domina ancor oggi il picco era indicata come “Il Gran Quartiere dei Soldati”, per distinguerlo dai quartieri, a ridosso di via Toledo, dove la guarnigione del Re di Spagna aveva una promiscuità con gli abitanti che ne diminuiva la bellicosa leggenda. Nel Regno di Napoli il Gran Quartiere dei Soldati era la Caserma della Guardia Reale (ora caserma Nino Bixio) e sulla parte scoscesa verso via Chiaia, vi era e vi è la Nunziatella, già noviziato dei Gesuiti, e verso S. Lucia, scuola della Regia Marina (ora Istituto Palizzi). Tutto in Pizzofalcone sa o sapeva di militare: la grande bandiera tricolore alla cima di Monte di Dio; i cadetti nelle divise ottocentesche con nella mano inguantata il corto spadino, accompagnati dalle madri che, ansiose, ne attendono l’uscita dal portone e poi ne intuiscono l’autonomia e il distacco nella discesa verso la città. Adolescenti che ricevono come messaggio il sacrificio – della carriera al dovere, dell’interesse particolare a quello generale –, nella essenza dello spirito militare; la lapide dei caduti della Grande Guerra, all’uscita dell’ascensore di Chiaia, fuori dalla Basilica di S. Maria degli Angeli, piena di nomi di ufficiali discendenti in grado, da colonnello ad aspirante, in numero inverso agli elenchi dei paesi dell’Italia rurale. Ciò non toglie che le teglie in metallo zincato, con le arselle nel dito d’acqua di mare della loro sopravvivenza, sporgano dalle porte dei bassi, con i venditori nell’ombra della stanza sulla strada; e che i negozi di alimentari e le piccole trattorie permangano nelle traverse delle due strade che, verso l’alto, la percorrono, unico segno di vita quotidiana nel meriggio domenicale, tra i portoni sbarrati di Palazzo Serra, della chiesa di S. Maria Egiziaca e del Museo Palizzi.