di Paolo Simoncelli | Fotografie di Paolo Simoncelli
“Antonio il matto”: così era chiamato a Gualtieri Antonio Ligabue, il grande pittore naïf che visse qui, in questo lembo di Emilia affacciata sul Po, dal 1919 fino alla morte nel 1965. Lasciando ricordi indelebili come i colori dei suoi dipinti
Orazio Simonazzi, liutaio di Gualtieri non lontano dalle novanta candeline, siede in auto accanto a me. Sul sedile posteriore il passeggero più illustre: il centenario violino di abete rosso che estasiava Antonio Ligabue, Toni al mat, “Toni il matto”, al tudèsc (nato a Zurigo, parlava tedesco), al pitùr (il pittore) come lo chiamavano qui nella Bassa. E lo chiamano ancora, perché la sua aura aleggia sotto i portici di piazza Bentivoglio.
Spazio architettonico dalla perfetta simmetria, 100 metri per lato: rigore di linee e prospettive. Come ha potuto vivere qui un artista lontano anni luce dalla razionalità? Scontroso, iracondo, d’aspetto repellente (i bambini se la davano a gambe quando l’incontravano), diffidente, autolesionista, profondamente infelice, Toni era magro come una quaresima, gozzo tiroideo, cranio spelacchiato tra due sgraziate orecchie a sventola. Un tipo strano che s’infuriava come una bestia quando sentiva tossire.
E infatti, deluso dagli uomini, deriso e umiliato, preferiva le bestie al punto da voler loro assomigliare. Se lo ricordano gli anziani di Gualtieri, quando sbatteva la testa contro il muro. Si martoriava il naso a colpi di mattone o lo strisciava contro gli alberi fino a quando incominciava ad assomigliare al rostro dei rapaci che tanto amava. Ecco perché molti autoritratti mostrano il naso deforme e con una macchia rossa. E volti senza espressione, lugubri. Mai un sorriso, né una smorfia che dia speranza.
Intanto Orazio, il violino e io siamo arrivati. Viaggio brevissimo, meno di cinque minuti d’auto.
La meta del concerto senza spettatori, nel bel mezzo della “tundra” reggiana, è dietro l’angolo. Sì, perché il paese della Bassa è legato alla golena del Po, quella arcana striscia di terra tra il fiume e l’argine maestro, da un cordone ombelicale stretto, lunghissimo, diritto come un fuso. Adesso che è autunno il vialone procede in una foresta di pioppi spogli e segaligni, altissimi. Prima era inondata dal sole. Poi la bruma ha trasformato il paesaggio in un mondo ovattato. Più in là, da qualche parte, rumoreggia il “grande fiume”. E c’è anche un isolotto dalle atmosfere gotiche il cui nome, Isola degli Internati, starebbe bene in un romanzo di Edgar Allan Poe. Sceso dall’auto, Orazio appoggia il violino alla clavicola e inizia a suonare.
Le note della nostalgia scomodano Wagner, Beethoven, Brahms. D’un tratto, una voce di donna: «Smettila di suonare, non vedi che Toni piange?» Strani scherzi fa la macchina del tempo in quest’angolo di mondo. Siamo tornati negli anni Quaranta. Chi parla è la madre di Orazio: ha visto Ligabue coi lucciconi agli occhi dietro a un boschetto di salici e ha chiesto al figlio di riporre il violino. Era qui che viveva il liutaio insieme ai genitori, una casa raminga nel bosco di cui non c’è più traccia. «Toni si fermava spesso da noi per sentirmi suonare», racconta Orazio. «Amava i grandi musicisti tedeschi. Stravedeva per la Cavalcata delle Valchirie. Una volta gli feci un violino e non finiva più di ringraziare». Quando suonava però si alzava il lamento del gatto e gli uccelli del Po volavano via. «Non so suonare – disse un giorno –, lo vendo ʼsto violino».
La golena era il mondo di Toni. Terra d’acqua e fango, la fanghiglia rossastra che qui chiamano tivèr. Il pittore l’impastava in bocca e poi modellava cinghiali, babbuini, lotte d’animali. Oltre a essere uno dei pittori più rilevanti del Novecento, fu anche straordinario scultore. La lotta tra la tigre e il gatto selvatico è un capolavoro dal dinamismo sconvolgente. Anche i colori, a volte, se li faceva da solo. Mescolava erba, escrementi di piccione e mattoni triturati. Poi li scioglieva nell’urina di toro.
È nella golena del Po trasformata in savana che Toni evocava il suo immaginifico bestiario: tigri, gorilla, leopardi e babbuini al posto di volpi e ricci. Sembra di vederlo mentre si muove tra i pioppi, diretto ai capanni dove dormiva. Fu proprio qui che nel 1962 Raffaele Andreassi girò le straordinarie scene del pittore in preda a furenti esternazioni. Le crude sequenze lo mostrano mentre va su e giù con uno specchio al collo, emettendo grida agghiaccianti. Vuole assomigliare alle aquile. E infatti ogni tanto butta l’occhio nello specchio... Un docufilm che potete vedere alla Casa Museo Ligabue di Gualtieri, gestita con passione da Giuseppe Caleffi.
Quel che resta del suo mondo è tutto qui: fotografie, quadri e tanti oggetti a lui cari. Cimeli che gridano, perché se muore cotanto padrone, è difficile scrollarsi di dosso le sue furenti passioni. Ci sono i pennelli, la tavolozza dei colori, il libro degli animali, il violino di Orazio, i rasoi, le sottovesti da donna che indossava a strati, gli stivaloni, la valigia di Flavio Bucci nello sceneggiato Rai del ‘77 che fece 20 milioni di spettatori. C’è anche l’arredo originale, letto, armadio e comodino, dell’osteria La Croce Bianca di Guastalla, dove Toni visse gli ultimi anni e dove consumò con Cesarina l’unico amore (platonico) della sua vita. Da lei cercava solo un bés, un bacio, che nessuna gli aveva mai dato.
Quando non stava in golena, Toni si rifugiava nelle cascine dei contadini. Gente poverissima, come lui. Troppo impegnati a tirare a campare per comprendere la sua arte. Oppure a Villa Torello Malaspina, dimora settecentesca con parco all’inglese e laghetto. Era qui, nel granaio, che Toni dormiva. In piedi, in un buco, perché era ossessionato dalla morte e così, con giacca e pantaloni imbottiti di paglia per non morire di freddo, s’assopiva come un’antenna puntata contro la luna.
Sergio Negri, esperto e storico d’arte ma soprattutto il più autorevole studioso di Ligabue, nonché amico e confidente del pittore di cui condivise manie e ossessioni, se lo ricorda bene Toni: suo padre era il giardiniere della villa. «Lo sentivo di notte imitare il suono delle campane, un din don all’infinito». Era la nostalgia per il natìo cantone svizzero: non sono pochi i quadri dove sullo sfondo appaiono campanili e casette nordiche. Insieme a Sergio ho visitato la villa, passando in rassegna lo studio di Marino Mazzacurati, artista che fu il primo estimatore di Ligabue, e le serre liberty. Erano riscaldate e così d’inverno Toni se ne stava qui a dipingere. Fino a quando arrivò la paralisi. Proprio mentre il destino iniziava a rendergli merito. Aveva addirittura una Fiat 1400 nera e due autisti, il primo, Vandino, e il secondo, Sergio Terzi detto Nerone, anche lui pittore. Gli hanno dedicato un film e molti libri. Da entrambi gli autisti, quando gli aprivano la portiera, Toni pretendeva l’inchino «giù, fino alle ginocchia»: la rivincita dopo una vita di umiliazioni.
Nessun artista più di Ligabue fu consapevole del proprio talento. «Andrete nei musei a vedere i miei quadri», diceva. «Mi faranno un monumento. Sono un artista io». L’emiparesi lo disarcionò. Metà del corpo fu ridotta a un vegetale. E la mano sciamanica che aveva dato la vita a pezzi di compensato e tavole di faesite diventò inerte.
Ligabue morì due anni dopo al Ricovero Felice Carri di Gualtieri. Chi vuole può rendergli omaggio al cimitero della città. Vedrà la sua maschera funeraria e, sotto, l’epitaffio che è un testamento spirituale: “Sino all’ultimo giorno della sua vita desiderò soltanto amore e libertà”.
Sergio Negri ha un’altra particolarità: è l’unico studioso in grado di autenticare un’opera di Ligabue. «Quando vedo un quadro di Toni sento il rombo di un aereo». È la potenza delle pennellate, la forza espressiva: il segno di Ligabue. Di falsi ne ha visti tanti. Gli basta uno sguardo. Per dirne una, nel 1978 Negri scoprì un falso riprodotto sulla locandina di una mostra in programma a Bologna. Quando lo disse all’organizzatore per poco costui non svenne: aveva già tappezzato mezza città di manifesti. A notte fonda, col favore delle tenebre, mandò due o tre persone fidate a staccarli. Andò benone. Quasi nessuno se ne accorse. E così la mostra, e soprattutto Ligabue che già incominciava ad agitarsi nella tomba, furono salvi.