di Barbara Gallucci | Foto di Chiara Goia
Sentieri ed escursioni “fuori stagione” sulla vulcanica Pantelleria. Tra vendemmie eroiche e architetture ardite, giardini incantati e saune naturali. Per questa volta il mare resta sullo sfondo
Sradicare il luogo comune isola uguale mare, tintarella, spiagge ed estate. Decidere di andarci fuori stagione per vederla come la vedono gli isolani. Ignorare il mare che è lì, a portata di mano ma non troppo, per camminare sulle sue montagne che proprio montagne non sono. Ritrovarsi sì in costume, ma per entrare in una grotta che è una sauna naturale. Pantelleria, che è Sicilia ma guarda all’Africa, non può essere un luogo comune perché nel suo Dna c’è più di una stagione. Quando cammini su un’isola vulcanica, ogni tanto il pensiero di un’eruzione salta alla mente. «L’ultima è avvenuta nel 1891, ma nella parte sommersa dell’isola», rassicura Carmine Vitale, geologo del Parco nazionale dell’isola di Pantelleria, indicando le stratificazioni della roccia. Al faro di Punta Spadillo (nei cui pressi si trova il centro visite del Parco) si cammina sulla roccia nera, aguzza e sinuosa allo stesso tempo, a picco sul mare. E incastrati qui ci sono residuati bellici che ricordano un tempo non così lontano in cui Pantelleria era un punto strategico del Mediterraneo. Nell’ultima guerra ovviamente, orgoglio fascista con il suo aeroporto firmato da Pier Luigi Nervi a puntare diritto verso l’Africa, ma anche molto più indietro. «Questa è un’isola i cui insediamenti umani sono sempre stati importanti. I primi di cui si ha traccia sono dell’Età del Bronzo. Poi un po’ tutti l’hanno occupata e vissuta: Fenici, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi… ora ci sono i milanesi ma questo è un po’ il bello dell’isola», racconta con una certa ironia il direttore del Parco, Antonio Parrinello. Una cosa che accomuna il destino di tutti quelli che hanno voluto o vogliono insediarsi qui è la gestione del rapporto con la natura del contesto. «Vuoi mangiare? Vuoi bere? Vuoi coltivare? Bisogna ingegnarsi, sull’isola», prosegue Parrinello.
Poi ti guardi intorno e capisci. La pietra è l’elemento disponibile e con la pietra si può fare tutto. Si possono costruire ripari per l’uomo, i dammusi, i cui tetti ondulati sono pensati per raccogliere acqua, si può modellare e contenere il terreno con i terrazzamenti, si può persino pensare di proteggere gli alberi più delicati con dei giardini circolari («Sono migliaia i giardini panteschi e li stiamo mappando tutti per creare dei percorsi mirati», dice il direttore del Parco). I muri a secco sono la quintessenza del paesaggio pantesco e il nero e il verde i due colori primari dell’isola. Queste prove di ingegno che sfidano vento e assenza di fonti di acqua dolce per trovare soluzioni tuttora utilizzate sono poi entrate, nel 2014, nella lista del Patrimonio immateriale dell’umanità Unesco. Nella lista avrebbero dovuto infilare anche Salvatore detto Totò con la sua bella faccia segnata proprio dal vento, dalla fatica e dal sole. Anche la sua uva è lì, al sole. Si deve appassire. Diventare dolce quanto basta per trasformarsi nel celebre passito che i milanesi poi comprano a litri per superare, una volta tornati al Nord, quella malinconia che prende al distacco con Pantelleria. Si dice che quello che produce Totò sia il preferito di Giorgio Armani, habitué dell’isola. Lui come tanti altri vip che hanno comprato nel tempo i dammusi più belli.
Con un assaggio, piccolo, del passito di Totò in corpo ci mettiamo in marcia. «Dallo scorso anno il Parco e il Cai hanno cominciato una collaborazione importante. Insieme abbiamo mappato l’isola e identificato 21 sentieri escursionistici per circa cento chilometri. Stiamo investendo tanto su questo tipo di approccio perché siamo convinti che camminare su e giù per valli e montagne, tra vigneti e cappereti sia il modo migliore per capire l’isola». Parrinello cammina davanti a noi su uno di questi sentieri che conduce al pianoro delle favare, fumarole che sbucano dalla roccia con vapore acqueo che raggiunge i 50 °C. Un po’ meno sono quelli della grotta di Benikulà, dove chi è in cammino verso il Passo del Vento può sperimentare, indossando il costume finalmente, la sauna naturale che qui chiamano bagno asciutto. Questi sbuffi di vapore sbucano qui e là, ancora una volta a ricordare che la terra è viva e che controlla le sue energie, forse per farci un favore, ma chi sa quanto durerà questa pazienza. Cerchiamo di mantenere un passo leggero sui declivi rocciosi, consapevoli che lì di fronte, il Monte Gibéle, è un vulcano spento. Il cratere, seppur ricoperto di verde, rimane un cratere. «In alcuni momenti dell’anno, soprattutto in inverno, la piccola depressione che c’è al suo interno si riempie d’acqua e diventa un luogo molto apprezzato dai fenicotteri», spiega il geologo Vitale. Un sentiero non troppo difficile consente di raggiungerlo in circa quattro ore. Di fronte si erge invece Montagna Grande che con i suoi 835 metri è il picco di Pantelleria. «È proprio qui che si è sviluppato il grande incendio che ha devastato il territorio nel 2016. Poco dopo è nato l’Ente Parco, anche per proteggere e sviluppare una coscienza ambientale su Pantelleria – prosegue Parrinello –. Eppure la natura già si sta riprendendo tutto. Le condizioni ambientali sono talmente favorevoli che le piante ricrescono rapidamente. Per fortuna poi non è andato tutto distrutto. Facciamo una passeggiata nel bosco delle fate». In un attimo ci si ritrova immersi davvero in un bosco, con alberi veri, alti, dove la luce del sole filtra a stento. Le piccole viti, gli ulivi tenuti bassi con la forza, i capperi attaccati al suolo, gli aranci e i limoni rinchiusi nei loro giardini, sono spariti per lasciare spazio a una fitta e rigogliosa vegetazione. Il mare non si vede più. Le querce isolano da rumori e distrazioni panoramiche. Anche qui l’essere umano ha provato a lasciare segni della sua presenza, ma la natura se li è mangiati trasformando in archeologia avvolta in una specie di giungla qualsiasi intervento.
La lotta quotidiana contro un ambiente che può essere ostile e generoso allo stesso tempo sta alla base anche di un gruppo di impavidi agricoltori che, nonostante il richiamo delle sirene della terraferma che promettono una vita più semplice, con professioni meno faticose e meno vento contro il quale incaponirsi, continuano a voler mantenere a Pantelleria quelle caratteristiche di autosufficienza agricola che la rendono unica. «Lo sforzo è innegabilmente eroico. Ma continuiamo a farlo perché sta nella natura e nella storia dell’isola mantenerla così», dice Ketty D’Ancona. Lei rappresenta la penultima generazione della famiglia di vinificatori D’Ancona: «Prima era solo uva zibibbo che dal porto di Pantelleria partiva sui velieri per arrivare a Palermo, Napoli, perfino Genova. Era utilizzata come uva da tavola, poi, cento anni fa, mio nonno cominciò a imbottigliare». Le fa eco Denny Almanza: «Anche la mia famiglia ha sempre avuto un’azienda agricola e io ho deciso di continuare la tradizione. Capperi, miele e ora provo anche col vino». Per impedire che Pantelleria si svuoti della sua anima e si trasformi solo nell’isola del sole, del mare, della tintarella, bisogna avere coraggio ed essere un po’ eroici in effetti. Basta guardare la raccolta dell’uva tardiva per capirlo. Gli operai stanno piegati, la vite ad alberello è bassa, piccola, ma carica d’uva. Tutto si fa a mano. Sui terrazzamenti non arrivano macchinari o trattori, solo la fatica. Per quello molti scappano o si dedicano ad altro, ma poi ci sono anche quelli che rimangono o che tornano. «Mio figlio si è laureato in ingegneria ma poi è tornato, sta cercando di ottimizzare e sperimentare una resa più funzionale della cantina», racconta Ketty mentre appunto il figlio sposta, briga, misura le temperature degli ambienti.
La foschia del tramonto rinfresca l’aria, l’umidità, ovvero l’irrigazione naturale dell’isola, aumenta. Prima che si faccia davvero buio c’è tempo per un bagno, anzi due. Anche in pieno inverno. A guardarlo dall’alto lo specchio di Venere è una cartolina: di là il mare di qui il lago, in un gioco prospettico di sfumature di blu fino all’azzurro pallido. «È una caldera creatasi con sorgenti calde fino a 40/50 °C», spiega Vitale. Il rituale del bagno prevede di bagnarsi, poi riempirsi di fango, farlo asciugare al sole e poi sciacquarsi alla bell’e meglio. Un toccasana per la pelle grazie al potassio, al sodio e allo zolfo. Ma per toglierselo davvero di dosso il fango (e anche l’odore di zolfo) meglio usare l’acqua di mare. Imboccando la strada perimetrale che fa il giro dell’isola si raggiunge Cala Gadir, un piccolo porticciolo dove alcune vasche di pietra, già presenti in epoca romana, si riempiono di acqua calda, anzi bollente. I più coraggiosi sfidano prima le onde gelide del Mediterraneo fuori stagione per poi immergersi in questo brodo primordiale dove fare pace col mondo, anzi con la terra, possibilmente ringraziandola. Alla fine il costume da bagno serve anche in inverno, a Pantelleria.