di Isabella Brega
Nato a Conzano, in Piemonte, dal 1818 fino alla morte, nel 1830, viaggiò senza soste attraverso quattro continenti raccogliendo una straordinaria collezione etnografica, oggi esposta a Casale Monferrato
Aveva sei anni quando lo trovarono a scavare un grosso buco in giardino. Alla richiesta di spiegazione il piccolo rispose senza esitare: «Cerco di raggiungere gli antipodi!». E per tutta la sua breve vita il conte Carlo Domenico Fabrizio Giuseppe Maria Vidua di Conzano non smise di cercare. Nuove terre da esplorare, nuovi popoli da incontrare, nuove culture da comprendere, grazie a uno spirito illuminista unito a una sensibilità romantica e a un’attenzione nei confronti degli altri inconsueta in un nobile del XIX secolo.
Spirito libero e inquieto Carlo Vidua, nato a Casale Monferrato il 28 febbraio 1785 dal conte di Conzano e ministro degli interni di Vittorio Emanuele I, Pio Gerolamo, e da Anna Maria Gambera. Il suo destino pare segnato: sposarsi e dare un erede al casato. Ma lo stemma dei Vidua, un’aquila che sormonta una vite fruttata e la scritta Vincet Amor Patriae, sembra presagire le sue scelte future. Come la vite rimarrà tenacemente attaccato alla propria terra, soprattutto alla piccola Conzano, ma volerà via verso altri Paesi agendo – come dimostrerà nelle trattative per l’acquisto da parte dei Savoia della Collezione Drovetti, nucleo del futuro Museo Egizio di Torino – a maggior gloria della sua patria. Di quell’Italia che esisteva già nella sua mente ma che diverrà realtà solo 31 anni dopo la sua morte.
Cresciuto nel microcosmo costituito da Casale e dall’amata villa di Conzano, insofferente ai dettami famigliari, soffocato dal clima provinciale, nel 1818 Carlo apre le ali. Barche, carrozze, carovane, cavalli, cammelli e gambe in spalla, tutti i mezzi saranno buoni per soddisfare la sua voglia di altrove e la sua sete di conoscenza perché, come scrive: «Per me un viaggio non è un oggetto di curiosità ma di istruzione, che cerco in essi di ornarmi lo spirito, di rendermi degno della stima di chi mi conosce e fors’anche col tempo di potermi rendere utile alla patria». Sono viaggi difficili, intensi, spesso di impulso e in balia degli imprevisti. Per tre volte Vidua lascia Conzano e i suoi “buoni abitanti” per spingersi oltre, al di là di confini politici non meno che mentali. Grazie alla ricca eredità lasciatagli dalla madre, nel corso di soli 12 anni visita più di 60 fra Paesi e città di quattro continenti, dall’Europa alle Americhe, dall’Africa all’Asia.
In qualche caso, come per il viaggio a New York, s’imbarca di nascosto da quel padre disorientato di cui delude le aspettative. Dai suoi viaggi spedisce casse di oggetti, libri, ornamenti, armi. Torna in Piemonte – «che far a casa?» si domanda – con grandi baffi alla turca, gira per le campagne di Conzano vestito in abiti orientali, con il turbante in testa. Non è eccentricità la sua, ma un omaggio nei confronti di culture diverse con le quali si sente in sintonia.
Vidua è un curioso e acuto osservatore delle nuove istituzioni politiche. Grazie alle lettere di presentazione che riesce a procurarsi e all’importanza politica del padre, ovunque vada cerca di incontrare le massime autorità locali. Conosce lo zar Alessandro I, il Gran Mogol, il vicerè d’Egitto, Thomas Jefferson e diversi ex presidenti degli Stati Uniti, ma anche ambasciatori, ministri, economisti che gli forniscono le chiavi di lettura per raccontare con lucidità nelle sue lettere e nei suoi taccuini di viaggio il successo della rivoluzione d’indipendenza del Messico, le comunità quacchere e il popolo americano che «non ha la malattia du pays, l’attaccamento al campanile di S. Stefano, il rincrescimento nel distaccarsi dagli amici, da’ parenti, da una patria. Tutti questi sentimenti li sono stranieri. All’età di 20 anni, ei si prende una moglie e si va a cercar fortuna nell’ovest».
Il viaggiatore illuminista che è in lui raccoglie o compra con spirito enciclopedico tutto ciò che lo incuriosisce, dalle armi all’acqua del Mar Morto, dalle uova ai vestiti, mentre lo studioso acquisisce in modo quasi maniacale tutti i dati possibili, misura, corregge mappe e si rinchiude di notte nei templi e nelle tombe egizie per disegnarli, ricopiarne le scritte e, come un selfie ottocentesco, incidere il proprio nome accanto a quello di faraoni e dei, firmandosi “C. Vidua italiano”.
L’antropologo Carlo vuole conoscere usi e costumi, ma al tempo stesso, simile a un Ulisse dei nostri giorni, non si accontenta di osservare la realtà ma cerca di decodificarla e, vero e proprio cittadino del mondo, esprime una preoccupazione tutta moderna per la conservazione dei siti archeologici come quello di Palmira, in Siria, messa in pericolo dall’abitudine di abbattere le colonne per recuperare i minerali che ne connettono i vari pezzi.
Ma il tempo purtroppo sta per scadere. Il 16 agosto 1830 nell’isola di Celebes, oggi Sulawesi, mentre è intento a osservare la caldera del vulcano Tondano, finisce con la gamba destra nella solfatara di Lahendong. Le ustioni sono terribili, la gamba va in cancrena e Vidua muore il 25 dicembre a bordo della nave olandese che lo sta trasportando nel porto di Ambone, in Indonesia, dove si sperava di salvarlo amputandogli l’arto. La sua salma impiegherà ben tre anni per tornare in Piemonte ed essere poi seppellita nella chiesa di S. Maurizio a Conzano. Gli eredi donano la sua straordinaria collezione etnografica a Casale Monferrato, dove da poco ha trovato una degna esposizione nel Museo civico, mentre l’amico Cesare Balbo pubblica in tre volumi i suoi taccuini e le lettere sottraendo alla distruzione e all’oblio le opere e la memoria di un grande viaggiatore e di uno straordinario italiano. Memoria che, come spesso accade, è stata più onorata all’estero che in patria. Oggi a un’altitudine di 1.202 metri, il luogo dove avvenne il fatale incidente porta il nome di Count Vidua Solfatara Field. L’aquila di Conzano continua a volare.