di Diogene | Illustrazione di Franco Spuri Zampetti
Nella città gonzaghiana di Leon Battista Alberti
«Architettore chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e meravigliosa ragione, e regola, sì con la mente, e con lo animo divisare; sì con la opera recare a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti dei pesi, congiuntamenti, e ammassamenti dei corpi, si possono con grande dignità accomodare benissimo all’uso de gli homini»
Leon Battista Alberti, De Re Aedificatoria, Editio Princeps Firenze, 1485
Tra il Palazzo Ducale e Palazzo Te la città gonzaghiana è stata stravolta da palazzi recenti, lunghi periodi di decadenza, demolizioni che hanno lasciato lacerti, tracce, vestigia della bellezza delle case del Quattrocento, ornate di lapislazzuli, dalle finestre incorniciate in ghirlande di cotto, delle botteghe di mercanti con portici di marmi preziosi, delle pescherie e delle beccherie a ridosso del Rio che attraversa ancora la città.
Le opere del Regime (ne è esistito uno solo), la sede dell’Inps e delle Assicurazioni Generali, i condomini alti e squadrati e i palazzi barocchi non permettono di cogliere quello che Leon Battista Alberti era stato chiamato a comporre per il grande evento del Concilio di Mantova del 1459 voluto
da Papa Pio II Piccolomini. L’autore della definizione umanistica della poesia, della pittura, della statuaria e dell’architettura, nel momento del suo massimo splendore, doveva dare alla città, insieme al Mantegna, la magnificenza di Pienza, creata ex novo dal Papa, di Ferrara e Firenze, dove si erano chiusi senza successo i Concili precedenti, ma soprattutto, almeno per lui, in gara perenne con se stesso, di Rimini, dove con Piero della Francesca cresceva il Tempio Malatestiano che mai sarebbe stato finito. Ai Concili partecipava tutta Europa, e le città coinvolte facevano a gara per esibire la novità della propria bellezza. Mantova poi era speciale, guidata da uno dei grandi condottieri del tempo.
Per di più Ludovico II (o Luigi III) Gonzaga, detto il Turco per la sua ferocia, era il figlio di Paola Malatesta e così nipote di un altro capitano di ventura, Malatesta IV Malatesta, il “Malatesta dei sonetti” (per il suo amore della letteratura), signore di Pesaro, Rimini, Fossombrone, Fano e via dicendo. Con i Malatesta, i Gonzaga univano ricchezze e potere, anche se i primi avrebbero portato sul Mincio discendenti gobbi (che Giuseppe Verdi avrebbe evocato, a parti invertite, nel Rigoletto). Leon Battista Alberti sarebbe stato mentore della modernità del fresco marchesato.
Il Tempio di S. Stefano, rielaborazione critica del Tempio Malatestiano, costruzione coeva nel 1460, ha subito l’atroce restauro del 1925 ma, come dice la Guida Rossa Tci Lombardia, «le manomissioni non compromettono che parzialmente la lettura del limpido partito architettonico della facciata in cui coesistono elementi classici e soluzioni moderne inattese come le cinque differenti aperture del vestibolo e le arcate di accesso alla suggestiva cripta labirintica». La basilica di
S. Andrea, al centro del corno di terra che si protende nei laghi come il Corno d’oro di Costantinopoli appena perduta, doveva assorbire l’attenzione come una calamita. Un monumentale ingresso alle reliquie del sangue di Gesù esaltate dal modello vitruviano che però sarebbe stato «più capace, più eterno, più degno, più lieto» come lo stesso Alberti disse a Lodovico II (o Luigi III, ma comunque sempre il Turco) nel presentare il progetto.
Da ogni parte della città i capi di Stato presenti al Concilio avrebbero visto l’arcone in muratura al di sopra del timpano e il pronao, con la volta a cassettoni, come a Villa Adriana, che sarebbe proseguito dentro la chiesa per oltre cento metri, con le cappelle quadrate abbellite del cromatismo delle pitture e dalla classicità delle sculture. Che importa che Alberti non vide il completamento dei suoi progetti, come non li videro i partecipanti al Concilio. La crociata fu deliberata ma mai attuata, le opere di Leon Battista Alberti sono invece ancora lì, «modello di tante costruzioni religiose del Cinquecento e del Seicento» (cit. Guida Rossa).