di Isabella Brega | Isabella Brega
Il più giovane Comune d’Italia è un concentrato di personaggi originali, antiche tradizioni e consolidati riti balneari
L’estate italiana è una faccenda di famiglia. E di cuore. Crea dipendenza. Dà luoghi, volti, sapori e profumi e, come nel tormentone canoro del 1963, ancora oggi si svolge all’insegna di Stessa spiaggia, stesso mare. È la spiaggia dei nostri nonni, dei nostri genitori, della nostra giovinezza, ma anche quella dei nostri figli e nipoti. Una dimensione della nostra memoria, la madeleine della vacanza, il lido dei ricordi e di quelli ancora da costruire, in un passaggio generazionale che non conosce deviazioni. Tirreno o Adriatico, Costiera Amalfitana o penisola Sorrentina..? Scelte categoriche, mondi e luoghi che scorrono paralleli ma che molto raramente si interscambiano. Alla loro spiaggia del cuore, infatti, gli italiani sono fedeli. Si affezionano al posto ma soprattutto alle persone che lo abitano e ai riti che vi si praticano. È la comfort zone della vacanza, un insieme irrinunciabile di luoghi comuni ma rassicuranti, dove ci si sente a casa anche se si è altrove. Dal primo stabilimento balneare aperto a Rimini nel 1843, con la scoperta delle proprietà terapeutiche dell’acqua e dell’aria di mare e l’affermarsi della moda dei “bagni di mare”che portò agli inizi del Novecento le famiglie facoltose del Nord a trascorrere l’estate nelle casette affittate dai pescatori, lo sviluppo dei circa 100 chilometri del litorale non ha conosciuto intoppi. Favorito più tardi nella sua dimensione nazional popolare anche dalle frequentazioni del duce fascista, il romagnolo Benito Mussolini, ma soprattutto dalle colonie marine, nate per combattere la brucellosi e irrobustire generazioni di bimbi che, divenuti adulti, sull’onda del ricordo vollero ritornarvi con le loro famiglie. Il miracolo economico degli anni Sessanta, la chiusura in agosto di tutte le grandi fabbriche e il conseguente esodo di Fiat 500 cariche di umani e valigie, con il telo a coprire pacchi e sdraio aggrappati al portabagagli svolazzante, fecero il resto. Furono proprio le città balneari, con la loro sequenza ininterrotta di alberghi, pensioni e stabilimenti a gestione familiare, a capitanare la crescita del comparto turistico italiano. Grazie al potere dell’ombrellone gli italiani scoprirono la piadina e il liscio, ma soprattutto scoprirono il turismo: la riviera aveva inventato il mito dell’estate italiana.
Cuore saldo, lingua e mente pronte, sorriso aperto, in un eterno Amarcord che non ha però paura dei cambiamenti, anzi li precede, la Romagna è una terra di visionari e di coraggiosi. E visionario, oltre che bizzarro e misantropo, era Vittorio Belli (1870-1953), considerato il fondatore di Igea Marina. Nel 1905 questo medico, studioso di botanica, archeologia e arte, che possedeva una raccolta di 5mila volumi, 300 quadri e un migliaio di stampe, ma vestiva male, non dava confidenza che a tre persone e girava con la scimmia Baciccia al guinzaglio, acquista un chilometro di dune sabbiose che si estende fra il fiume Uso e Torre Pedrera. L’area individuata da Belli è prossima a Bellaria, piccolo abitato di contadini e pescatori che a partire dal 1885, grazie all’inaugurazione della linea ferroviaria Rimini-Ravenna, ben presto seguita dalla nascita di una serie di villini disposti lungo il litorale, ha già dato timidi segnali di una villeggiatura turistica di stampo aristocratico e borghese. Quella di Belli è una visione molto avanti per i tempi. Investe patrimonio e tempo nel progetto etico e urbanistico di una città-giardino sul mare, un villaggio di vacanze modello per le cure marine, dotato di stabilimento idroterapico ma anche di biblioteca e museo. Dopo aver fatto bonificare il terreno, impianta una pineta, dove si isola a vivere. Ma soprattutto, idea un piano regolatore con aree fabbricabili suddivise in 200 lotti e traccia un sistema viario a maglie ortogonali. Battezzata Igea Marina, la neonata località necessita di acquirenti, che Belli cerca attraverso inserzioni pubblicate su giornali e guide. Vittorio crede nel proprio sogno di un modello turistico che tenga conto dei valori ambientali e difenda l’integrità del litorale. Ma i capitali privati non arrivano. Troppo solitario, anche se geniale, l’uomo; troppo avanti per i tempi la sua sensibilità ecologica, troppo avveniristica la sua grandiosa visione urbanistica. La guerra, che danneggia la pineta, e la vendita disordinata dei vari lotti segnano la fine del sogno, ma anche l’inizio dello sviluppo turistico che conosciamo.
Da un sogno incompiuto a uno realizzato. Nello stesso periodo in cui Belli propone il suo modello turistico, lo scrittore e lessicografo Alfredo Panzini (1863-1939), collaboratore de L’Illustrazione Italiana, stanco della frenesia della vita milanese torna alla terra acquistando una serie di poderi vicino alla sua residenza di Bellaria, costruita nel 1906 con i primi proventi letterari, e vi mette radici. Solitario e lunatico Belli, affettuoso, ironico e ricco di famigliari e di amici Panzini, accomunati però dall’amore per la natura. Alfredo ama il suo buen retiro bellariese, la Casa Rossa, solida e sobria, dal colore acceso, come il suo volitivo e sanguigno proprietario, privo di orpelli e dalla lingua tagliente. Un cubo di mattoni su una duna di sabbia coperta dalla vegetazione del parco in cui oggi è inserito: il mare davanti, la ferrovia alle spalle. È a Bellaria che Panzini scrive La lanterna di Diogene (1907), il suo romanzo più famoso, che narra di un suo viaggio in bicicletta da Milano a Bellaria del 1903: 300 km in sella a una due ruote Opel, cinque giorni di caldo, fatica, paesaggi e strade polverose. Un viaggio lento in un’Italia di inizio secolo descritto con vivace e affettuosa ironia e un piglio verista già intriso di sensibilità moderna. Durante il viaggio Alfredo scrive in una cartolina da Dogana Nuova (Modena) al figlio Emilio che, scendendo da Borigazzo (1320 m) a Pievepelago (720 m): «Ho attaccato alla bicicletta una fascina e due macigni, legati ad una corda. Così sono sceso e come vedi non mi sono rotto il collo. Anzi sto molto bene e lo dirai a mamà. La gente vedendomi scendere a quel modo, levando dietro un nuvolo di polvere, mi ammirava (compreso i cani) più che per i miei libri...». A La lanterna di Diogene seguono Le Fiabe della virtù (1911) e, soprattutto, Il padrone sono me (1922), che ne sancisce la popolarità presso pubblico e critici. Nel 1929 la nomina ad Accademico d’Italia, che dopo la caduta del fascismo ne offuscherà l’immagine e lo farà precipitare nel dimenticatoio.
Le idee e l’amore per la natura di questi due personaggi fuori dal comune non sono però andati sprecati e continuano a connotare Bellaria-Igea Marina (uniti dal 1965 in un solo Comune), cresciuti enormemente dopo la guerra in termini di reputazione turistica grazie al senso di ospitalità, all’intraprendenza e capacità imprenditoriali dei suoi abitanti, oltre che alla ricca e varia offerta ricettiva e ai sette chilometri di spiaggia. Tanto da farle meritare, per il 13° anno consecutivo, la Bandiera Blu, riconoscimento ottenuto, oltre che per la qualità delle acque e dei servizi e la gestione ambientale, anche per due temi che sarebbero stati cari a Belli e a Panzini: le aree verdi e le piste ciclabili. I sogni di rimboschimento e di spazi verdi auspicati dal primo sono infatti presenti nel parco del Gelso di Igea Marina, 25 ettari di piante d’alto fusto, un lago e attrezzature per lo sport e il tempo libero. Gli amanti della bicicletta hanno a disposizione una rete di ciclabili, come la ciclopedonale fino a San Mauro Pascoli. Ma la vera ricchezza di questi luoghi sono i suoi abitanti e il loro saper fare, come Giuliano Casadei, il grande maestro dell’artigianato romagnolo che porta avanti la tradizione delle tele stampate a ruggine, con la quale si realizzano tende e tovaglie. Ultimo esponente della storica stamperia di famiglia, Giuliano continua a seguire la tecnica tradizionale e, pur avendo a disposizione un patrimonio di circa 1.500 stampi, continua a disegnarne e a intagliarne di nuovi nel legno di pero o di noce. Immerso in un composto di farina, aceto e chiodi arrugginiti, lo stampo viene poi appoggiato sul tessuto e, tramite i colpi di mazzuolo, trasferisce il disegno sulla tela. Casadei, con la sua passione per la tradizione e il lavoro, è la genuina espressione di quella gente di Romagna che ha saputo costruire un concetto di ospitalità che è parte integrante del proprio dna. Un insieme di saperi: buon cibo, buona musica, buonumore. Quel buon vivere che pratica con entusiasmo e con cui contagia i propri ospiti. La Romagna crea dipendenza, perché è qualcosa di unico e inimitabile. Come sosteneva Panzini: «Rimanete fedeli alla Romagna, è l’unica terra in cui si conserva quel poco di buono che è rimasto nel mondo».