Evergreen. Concessioni, ma non in perdita

Le considerazioni del Consigliere Tci Mario Tozzi

Lo Stato italiano ha deciso di assegnare in concessione alcuni suoi beni immobili perché qualcuno li manutenga e ne impedisca il degrado, ricavandone, in cambio, un guadagno limitato nel tempo. Questo in teoria, perché le cose non stanno andando affatto così (tranne qualche caso) e l’operazione rivela diversi aspetti negativi, ambientali e economico-sociali. “Valore Paese”, così si è chiamato il programma dell’agenzia del Demanio per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico che, per i fari ad esempio, si rifaceva a consimili progetti europei (lighthouse accomodation) per renderli adatti all’accoglienza turistica, ricettiva e ristorativa. Il faro di Capo Spartivento, in Sardegna, ha guidato questa nuova opzione imprenditoriale, generando un turismo di lusso a fronte di un canone locativo attorno ai 100.000 euro/anno, dopo aver sostenuto le spese di ristrutturazione.
Ma non tutti i beni hanno lo stesso valore immobiliare e ambientale, basti pensare, ancora in Sardegna, agli innumerevoli beni militari (piazzeforti, fortini, postazioni di artiglieria) in aree di pregio come Caprera. Evitare il degrado di strutture pubbliche è senz’altro un bene, ma lasciare che luoghi incantevoli diventino, di fatto, privati non lo è. In linea di principio dovrebbe essere lo Stato a occuparsi del restauro di questi edifici e della loro fruizione guidata corretta, magari con l’aiuto di enti e istituzioni private e volontari, come avviene in alcuni casi. Si devono cioè trovare risorse a questo scopo, per esempio con forme di sponsorizzazione regolate in maniera corretta, come per esempio è accaduto a Roma con la Piramide Cestia, interamente restaurata grazie a un mecenate giapponese che in cambio ne ha ottenuto solo una targa ricordo e la possibilità di essere ricordato per sempre per la sua azione benefattrice (nel suo Paese peraltro defiscalizzata).

Nessuno dovrebbe essere autorizzato a dormire in questi luoghi protetti e pregiati se non per ragioni di ricerca e documentazione. E, se proprio si deve, dovrebbero essere come rifugi di alta montagna: limitata capacità, sale collettive, servizi comuni e prezzi calmierati. Invece diventano resort di lusso destinati a pochi in una logica che di fruizione sostenibile ha ben poco. E consentire la ristorazione comporta comunque un degrado e un disturbo per l’ambiente. I restauri avvengono in genere in maniera corretta e sorvegliata, quindi non si tratta di ecomostri in senso stretto, a meno di non voler dare a questo termine un’accezione allargata, che comprenda il disturbo generale che comunque arrecano in luoghi di pregio.
Infine, le strutture ricettive di lusso possono funzionare in qualche caso, e allora sono remunerative, ma in altri meno o niente affatto: cosa accade di quel bene che non porta il guadagno sperato a chi ha investito magari milioni di euro nella ristrutturazione? O fallisce o trova escamotage che, nel nostro Paese, sono sempre all’ordine del giorno, simili a quelli di chi chiede di ampliare il proprio albergo e poi non riesce a occupare tutti i posti letto, e quindi trasforma la struttura in mini appartamenti che rimarranno occupati venti giorni all’anno, ma incomberanno sul territorio per sempre. In questo caso la struttura esisteva già e non potrebbe essere ampliata, ma trasformata? Chi controllerà che queste operazioni non siano solo le classiche teste di ponte verso speculazioni successive? La risposta la conosciamo già fin troppo bene.

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