di Marco Mottolese
Tornare in luoghi conosciuti lamentandone i cambiamenti bo provare di nuovo a emozionarsi?
Vorrei dare un consiglio a chi viaggia da molto tempo e si trova a tornare dove, anni prima, era già stato. Premetto, i consigli sgorgano dalle proprie esperienze e per essere davvero utili a chi li riceve devono essere frutto di osservazione e riflessione ed emanati con disinteressata sincerità. Nel corso del tempo accade alle volte di dover duplicare una meta che ci aveva già visti transitare in passato, remoto o meno che sia. Può succedere, inoltre, che in questo nuovo passaggio non si viaggi da soli, ma accompagnati da una o più persone che, contrariamente a te – che in quel luogo sei già stato – vedano per la prima volta ciò che tu, viaggiatore di ritorno, avevi a suo tempo osservato. Sappiamo che il mondo è in continua trasformazione, non solo le aree urbanizzate – ché le città si modificano per definizione – ma anche le campagne, i luoghi di mare, a volte persino le valli montuose, le più intoccabili, le più immote. L’uomo è inesorabile nella sua capacità di intervenire e mutare il paesaggio, quasi volesse entrare in gara con la natura per decidere chi è che comanda sulla Terra.
Quando si giunge per la prima volta in un luogo che non si conosce si prova sempre un senso di felice straniamento; gli occhi, cercando di assorbire nel minor tempo possibile il quadro d’assieme per capire dove ci si trova, si attivano in preda a una sottile febbre mentale che fa leva sulla capacità, ancora presente nel dna dell’uomo contemporaneo, di affrontare, come a ogni alba accadeva agli uomini primitivi, una natura possente, da comprendere e dominare. Così rimane viva, viaggiando, quella sensazione di aprire gli occhi sull’ignoto, misto di stupore e paura, che ancora ci abbraccia quando arriviamo per la prima volta a New York oppure a Bombay (lo so che il nome è cambiato e ora si chiama Mumbai, ma quando vi andai la prima volta si chiamava ancora così) e la stessa sensazione insorge anche affacciandoci sulla terrificante scogliera irlandese, detta Cliff of Moher, dove si può percepire cosa vuol dire “fine del mondo”, oppure entrando in una silenziosa valle dolomitica che, stordendoci con la sua bellezza, azzera i ricordi e ti rende nuovamente bambino.
Queste sensazioni, per chi viaggia, hanno una loro unicità che, ricomposte insieme, costituiscono il senso dello spostamento di una persona attratta dall’orizzonte come un uccello migratore dal caldo. Ora, direte, e il consiglio? Una frase famosa, attribuita a Marcel Proust, dice: «Viaggiare non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi». Ecco, il consiglio è insito in questa frase ed è utile perché ha un duplice valore: in primo luogo vale per se stessi in quanto rivedere un luogo con occhi diversi è come vederlo come se fosse la prima volta – e dunque l’esperienza non si duplica ma rimane comunque singolare – e poi, è questa la mia esortazione, se per caso si torna con altri in quel luogo, conosciuto ma anche sconosciuto allo stesso tempo, fingete che anche per voi sia la prima volta, evitate di dire «sapessi come era bello questo paesino prima di diventare un luogo invivibile». Immergetevi piuttosto nello sguardo altrui che per la prima volta vede un posto che non è più, si badi bene, quello che voi avevate visitato un tempo.
Godetevi questo nuovo paesaggio cavalcando la visuale di chi vi è accanto e, se per caso, esplorando, doveste incrociare una vecchia cartoleria ed entrando scorgere cartoline vintage che raccontano, in uno scatto, quel luogo al tempo della vostra scoperta, con garbo allontanatevi immediatamente dall’espositore, evitate di farvi vedere incuriositi o nostalgici: quelle cartoline sono un luogo mentale che ormai potete visitare solo voi.