di Tino Mantarro | Fotografie di Lorenzo de Simone
La cooperativa di comunità Fermenti Leontine prova a invertire il calo demografico e la fuga dal borgo Bandiera Arancione dell’entroterra riminese, e per farlo inizia riaprendo il forno. Mentre in paese nasce un albergo diffuso
Quando ero piccolo mio nonno recitava una filastrocca che grossomodo faceva così. Il pollice dice: «Non c’è più pane». L’indice: «Come faremo?». Il medio, sicuro: «Lo ruberemo». E poi andava avanti con l’anulare che trovava del pane e il mignolino che lo chiedeva per sé, in qualità di più piccino. Questa filastrocca con la sua domanda angosciosa, «non c’è più pane, come faremo?», mi è tornata alla mente a San Leo, Comune Bandiera Arancione Tci del Montefeltro. Il borgo antico di San Leo è arroccato da secoli su un inespugnabile sperone di roccia, un pugno di case e meno di cento abitanti raccolti intorno al suo possente fortezza che domina la Valmarecchia e tiene d’occhio la Repubblica di San Marino.
Qui nell’autunno del 2018 ci si è trovati davanti a un grande problema: lo storico forno stava per chiudere. Non una cosa da poco per qualsiasi comunità, anche minuscola, in Italia dove due sono i servizi davvero essenziali: bar e pane fresco. Se mancano, un paese italiano non può dirsi tale. Nella turistica e scenografica San Leo, bar e ristoranti abbondano, ma di forno c’era solo quello di Vittorio, che chiudeva dopo 65 anni. Agli abitanti del centro storico sarebbe toccato andare a comprare il pane fresco dieci chilometri di curve più in basso, nella frazione Pietracuta, dove vive la maggioranza dei 3mila abitanti di San Leo. Un paesotto cresciuto lungo la statale della Valmarecchia, popolato dai transfrontalieri che lavorano all’ombra del Titano. Sembrerebbe una questione di campanile, ma in decenni di attività il forno era diventato un elemento identitario per chi vive nella parte alta paese: «Venivano fin dalla costa per il suo filone di pane toscano e per la spianata con il rosmarino» spiega Samuele Nucci. Ventiseienne romantico, innamorato del suo paese – «quando apro le finestre e lo guardo penso che non vorrei mai andare altrove» – Nucci è uno dei consiglieri della cooperativa di comunità Fer-Menti Leontine.
Nata nel 2019 grazie all’impegno di una cinquantina di abitanti intenzionati a non far morire il loro paese, la cooperativa rappresenta un modello di innovazione sociale dove i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi con un unico scopo: produrre vantaggi a favore della comunità. Che nel loro caso è San Leo, ma anche tutta la Valmarecchia. «Il nostro primo progetto è stato riaprire il forno perché era la necessità sentita da tutti», spiega Nucci. Di mezzo ci si è messo il Covid, ma alla fine nell’aprile dello scorso anno il forno ha riaperto proprio nei locali del vecchio. «Un segno di continuità in un progetto che nei fatti è tutto diverso, innovativo» racconta Marta Ciucci, architetto che è tornata a vivere nel paesi dei nonni e ha seguito tutti i passi del progetto. Il panificio ha cinque dipendenti, di cui due di San Leo. Usa grani di una cooperativa di Pennabilli, «perché dobbiamo valorizzare tutte le risorse locali» dice Ciucci. Non solo, «visto che la coerenza è un bene, pratichiamo anche la sostenibilità sociale, dunque panifichiamo di giorno, perché anche chi lavora in un forno ha diritto a una vita normale» spiega. Così verso le sei nel paese si diffonde un trascinante odore di pane caldo. All’inizio è stato difficile far accettare il cambiamento, in paese l’età media supera gli 80 anni e da che mondo e mondo il pane fresco si compra al mattino. «Ma ora si sono abituati, anche perché il nostro è un pane diverso, con lievito madre, che dura giorni e giorni» prosegue Ciucci.
l panificio è solo il primo tassello del progetto cooperativo. «Le piccole imprese di comunità hanno una visione fuori di sé, guardano al mondo in modo diverso, si rapportano al globale e al locale» spiega Andrea Zanzini, coordinatore dell’incubatore Appennino Lab, che ha avviato il percorso per la creazione della cooperativa. «Abbiamo convocato la cittadinanza ponendo una domanda secca: “Come vedete il futuro del paese?”. Ci siamo presto resi conto che qui c’era terreno fertile, giovani che vogliono fare qualcosa» spiega. Nell’idea di chi ne fa parte così la cooperativa diventa un mezzo per riavvicinarsi al territorio, scoprire quanta ricchezza ci sia, cercando di fare da collante e propellente per altre realtà che vogliono aprire intorno a San Leo, e invertire la tendenza allo spopolamento. Perché anche se dal belvedere si vede nitido il profilo della costa, San Leo è un’area interna con tutti i problemi connessi. «La Riviera romagnola con il boom degli anni Cinquanta ha drenato la popolazione, prima facevano solo la stagione, poi si sono trasferiti a Rimini» spiega Pierluigi Sacchini, consigliere comunale. «Questa è sempre stata una zona consacrata alla mezzadria: proprietà di 20, 30 ettari coltivati a grano e foraggio, perché c’era molto allevamento di bovini e pecore. Poi tutto si è perso, nel fondovalle hanno iniziato a cementificare e costruire capannoni per aprire aziende avicole e altre industrie. Oggi sono vuoti». Il cambiamento si vede bene affacciandosi al belvedere che si apre sulla Valmarecchia. «Ora c’è un alternarsi di qualche campo arato, alcuni incolti e diversi boschi. Trent’anni fa era tutto ben coltivato», prosegue. «Ma la vera fortuna di San Leo è che siamo stati uno dei primi territori sottoposti a vincolo paesaggistico, così non si è costruito a caso e ci siamo salvati».
Anche perché negli anni Settanta in paese è arrivato il turismo. «Tutto è iniziato con il restauro del forte, che era abbandonato dal 1910. È diventato un grande attrattore per chi veniva dalla Riviera. Nei giorni di brutto tempo da Rimini i turisti scelgono se andare a San Marino, a Gradara o venire qui». Ma si tratta di un turismo di giornata, mordi e fuggi: attratti dal mito di Cagliostro che qui venne imprigionato, salgono alla fortezza – che è panoramica e scenografica –, girano per la sale con il loro allestimento un po’ datato e poi scendono in paese. Ammirano il magnifico Duomo romanico e la vicina pieve, si fermano a pranzo, perché il territorio è propizio (pasta ripiena, piadine, carni alla brace) e con sette ristoranti la scelta non manca. Fine della gita, ritorno al mare. «Noi non abbiamo bisogno di più turisti, ne abbiamo tanti. Avremmo bisogno di un turismo diverso, che viene nel Montefeltro per il Montefeltro, di cui San Leo storicamente è la capitale, vive il territorio e si trattiene più giorni per goderne» dice Sacchini.
E allora qui si torna alle potenzialità della cooperativa di comunità. Tra i membri ci sono anche Francesca Berardi e Marco Martini. Lei romagnola, lui marchigiano; uno di formazione storica, l’altra scientifica. «Ci siamo trasferiti qui nel 2013 perché innamorati di questo territorio e dell’idea di vivere in un paese. Abbiamo trovato una casa medievale, una volta ristrutturata abbiamo iniziato con un b&b. Ma ben presto abbiamo capito che la svolta sarebbe stata abbracciare la filosofia dell’albergo diffuso». Concretizzare l’idea non è stato facile, ma dallo scorso 1° maggio hanno aperto. Hanno iniziato proponendo le camere dello storico albergo Castello e di un paio di altre case. «Nel giro di qualche mese si sono fatti avanti in tanti a chiederci di gestire le loro case per offrirle ai turisti» raccontano. Il passo successivo è costruire la rete con il territorio. «Vogliamo che il nostro sia un progetto inclusivo, aperto a valorizzare tutte le realtà che ci sono, perché il paese è un organismo, tutte le parti sono vitali e funzionali, e procedono solo in sintonia con il resto del territorio». Per questo stanno costruendo una rete di esperienze da proporre ai turisti. Per esempio li mandano da Luigi, che sulle colline ha aperto un allevamento di capre. Un posto che varrebbe la pena visitare anche solo per la vista grandiosa sul borgo. Anche Luigi ha scelto di venire qui. «Sono di Santarcangelo, ho studiato agraria e volevo fare qualcosa, ma dal punto di vista agricolo questo è un posto svantaggiato, se vuoi vivere devi fare qualcosa di diverso» spiega. E lui ha scelto qualcosa di davvero diverso. «Abbiamo iniziato con sette capre cashmere, ora ne abbiamo una trentina. Seguiamo tutta la filiera, dall’allevamento alla realizzazione artigianale dei capi, e organizziamo visite guidate che includono laboratori di filato». Anche loro fanno parte di Fer-Menti Leontini. Anche loro sono convinti che «solo se vivi un territorio, riesci a farlo sopravvivere, renderlo accogliente e salvaguardarlo».
Stessa filosofia dell’azienda agricola Gabrielli. Qui hanno deciso di investire nell’allevamento: non animali qualsiasi, una razza autoctona, il Grigione del Montefeltro. «Un maiale brado, che regala carni di alta qualità» racconta Alessandro Meluzzi, 35 anni, direttore vendite. «Se ne ricava un prodotto d’eccellenza, costoso perché tutto è locale, biologico e cresciuto investendo nel tempo: 18 mesi contro gli 8/10 normali. Però serve questo per far emergere il territorio, per far capire il valore di quel che c’è qui» racconta. Meluzzi è di Rimini e si è trasferito a vivere in queste campagne, anche lui è convinto che solo la passione e la capacità di far rete possano invertire le sorti delle aree interne. Alla cooperativa non hanno aderito solo giovani. C’è anche Gilberto Mascella, 70 anni, restauratore con una bottega sulla piazza. «Perché ho abbracciato la cooperativa? Perché sono leontino e vorrei che questo borgo non morisse. E allora ben venga questa iniziativa, speriamo porti idee e gente nuova, perché io davvero vorrei che ci fosse un futuro per questo posto» spiega. Intanto c’è già un ottimo profumo di pane.