Una foto, una storia. Un tempo qui era tutta pesca

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Un tempo tanti vivevano della pesca del Po, si prendevano anguille e gamberi. Ora il siluro e la pesca di frodo hanno cambiato l'ambiente, naturale e umano

I fiumi ormai sono acqua in movimento, scolo per la pioggia che scivola verso il mare. Al massimo un problema, quando gonfi oltre ogni limite minacciano di esondare. Una risorsa no, non più. Si nascondono dietro argini sempre più grandi, borghi e paesi gli volgono le spalle, e non c’è quasi più nessuno che li navighi, se non qualche canoa e poco altro. Neanche il Po, che è il più grande di tutti e potrebbe essere un’alternativa all’autostrada, se si volesse. Anni fa avevano attrezzato porti, dragato canali, disegnato futuri di imbarcazioni che approdavano addirittura a Milano portando uomini e merci, ma alla fine tutto è com’era, fermo. Solo l’acqua continua a muoversi. Oggi giusto un paio di imbarcazioni turistiche solcano le sue acque e quelle del Canal Bianco, per unire settimanalmente Mantova con Venezia. Si potrebbe fare molto di più, ma nessuno sembra volerlo. Così sul Po si incontra sempre meno gente, anche se la realizzazione della ciclovia Vento (che unisce Torino con Venezia seguendo l’argine del Po) potrebbe invertire la tendenza e portare almeno i cicloturisti a vivere il fiume da vicino. Quelli che non mancano ultimamente sono i pescatori. Ma non quelli romantici, che contemplano l’eterno divenire del fiume, armati di canna e pazienza aspettano e intanto osservano. E neanche quelli che si cimentano nella pesca con il bilancino, uno strano aggeggio che è come una grande rete da pesca appesa però a una canna, sembra una sfida alla fortuna: non ci sono esche, né ami, solo la ventura di tirarla su nel momento in cui passa il pesce. E non ci sono nemmeno quelli ritratti in queste immagini che provengono dall’archivio Touring. Scattate tra gli anni Trenta e Sessanta, rimandano a un tempo in cui con la pesca sul Po vivevano intere famiglie, specie con le anguille, che adesso sono un’industria limitata alla zona del Delta. Signori a loro modo eleganti pescavano con attrezzi antichi, nasse di vimini intrecciati come tramandava la tradizione, esche vive, rispetto del tempo e delle stagioni. Vivevano sul fiume e del fiume, quando ancora dava di che vivere a tanti.

Oggi i pescatori per necessità sembrano essere sempre meno, come se la pesca fosse un affare per anziani o, appunto, il ricordo di una foto d’archivio. Sul Po aumentano sempre più i pescatori di frodo, che si spartiscono le acque del grande fiume come se fossero territori di caccia. Così il fiume diventa una zona franca, dove comanda la pesca illegale, praticata con mezzi eclatanti che vanno dall’elettrostorditore alle reti a tramaglio fissate sul fondo. Un settore che pare essere in mano ai gruppi criminali che vengono dall’Est. Fanno retate di una notte, raccolgono 500, 600 chili di pescato, quel che serve lo sfilettano sul posto, lo mettono nei furgoni coperti di ghiaccio e via, lo portano in Romania. Qualche volta qualcosa compare sui mercati italiani, ma è poca roba perché il pesce d’acqua dolce da noi non tira e poi non hanno nessun certificato sanitario, per cui sono invendibili. Per di più i pescatori di frodo sono a caccia di pesci siluro, una specie non nativa che negli ultimi anni si è diffusa ovunque nelle nostre acque. Giganti del fango, vivono sui fondali e arrivano fino a due metri, come niente superano i 50 chili e soppiantano la fauna autoctona. Per cui sempre meno carpe, lucci, gamberi, granchi d’acqua dolce e anguille. E con loro addio ai pescatori, che della pesca non facevano uno sport, ma una ragione di vita.

 

Fotografie di Archivio Tci
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