di Paolo Simoncelli | Paolo Simoncelli
Montalto Uffugo: come un paese destinato all'oblio si trasforma in un porto internazionale per nomadi digitali
Roberta Caruso, la “fuggitiva pentita”, se ne sta al Cocreating di Montalto Uffugo in provincia di Cosenza, con un paio di collaboratori. È nel laboratorio
di trasformazione sociale del centro storico, che le idee diventano progetti. L’illuminazione arrivò nel 2015. Stanca della vita paesana, monotona, senza prospettive, partì per Bologna. Tornata con la laurea in filosofia, non annusò nulla di nuovo. Fuggì ancora, questa volta in California. «Cercavo l’Eden, ma l’eden era sotto casa», racconta. Il ritorno alle origini fu il naturale epilogo. Ispirata dall’amore per le diverse sfumature dell’umanità, fedele al motto «apro la mia casa al mondo e vediamo se riesco a viaggiare stando ferma», Roberta scrisse sotto forma di racconto un progetto di Home 4 Creativity, un incubatore di idee per la trasformazione sociale di luoghi destinati all’oblio. Lo inviò al Sole 24 Ore. Due giorni dopo la storia era sul quotidiano. L’idea era la creazione di un ambiente in cui gente da tutto il mondo abitasse e lavorasse per un breve lasso di tempo. Coliving e coworking per dirla all’inglese. Abitanti temporanei, nomadi digitali soprattutto, in grado di stimolare con le loro proposte la metamorfosi di un territorio senza futuro. Tra le idee in cantiere, nacque nel 2019 il progetto I live in Vaccarizzo, paese a un rosario di curve da Montalto Uffugo. Roberta lo propose come banco di prova sperimentale perché nonostante lo spopolamento, la comunità di 400 anime sfornava eventi socio-culturali come a Roma e New York. Progetto che vinse il bando internazionale sulla trasformazione sociale indetto dal Mit di Boston. L’interesse cresceva. Per tre anni il modello di coliving che genera economia sul territorio è stato oggetto di studio dei ricercatori delle Università di Melbourne, Sassari e Ferrara. E adesso il resoconto scientifico sta per uscire sul Journal of Business Research. Nel paesello dove non c’era più nulla nacque la Cooperativa di comunità e con questa ’A Putiga, bottega di generi alimentari dove sono stati assunti a tempo indeterminato Alessio e Ida, due giovani che avevano le valigie già pronte. Ci sono il bar della Piazzetta che sta per riaprire e l’ufficio postale tornato a nuova vita. E c’è Rosina che racconta ai turisti “lenti” la storia della filanda dismessa negli anni ’60. Dava lavoro alle donne del paese che facevano, e fanno ancora, i maccarruni coi rametti di salice. L’arte invece s’annida nello sguardo imperscrutabile delle cariatidi che affollano il coro ligneo della chiesa di S. Rocco. In cerca di un luogo autentico, si è da poco stabilita qui una famigliola di argentini. Un tocco di esotismo per la tenace, rilassatissima comunità. Molti si chiedono come gli abitanti di un paese dove non c’era più nulla siano riusciti a rimanere forti. «Non hai visto?», dice Franco Giannuzzi detto Franc’Olio. «A Vaccarizzo ci sono due chiese. Vuol dire che lassù qualcuno ci protegge».
«Per mettere a regime il progetto è bastato unire i puntini della mia vita», spiega. La laurea in filosofia, due genitori “riconvertiti”, il casolare di famiglia in cima alle colline di Montalto Uffugo da trasformare in Home 4 Creativity. La struttura è appollaiata sopra valle del Crati, terra incontaminata di campi, ulivi, castagni, querce, con la visione di tre vette calabro-lucane oltre i duemila metri, Serra del Prete, monte Pollino, Serra Dolcedorme. Valle antica, sconfinata. Nulla colpisce di questo arcano, solenne paesaggio. È l’armonia di un territorio incolto, dove la mano umana poco incide, a scuotere l’anima. Nel rispetto dei cicli naturali, qui nasce l’olio più buono d’Italia. Un anno di “carico”, di alberi zeppi di olive, e l’anno dopo di “scarico”, senza olio. Niente additivi che forzino la natura a discapito della qualità. Quando l’idea di Roberta prese forma, il concetto di coliving era limitato ai pionieristici esperimenti delle grandi città americane, San Francisco per esempio, luoghi dove i flussi turistici e lavorativi erano considerevoli. La rivoluzione fu un coliving rurale, lontano dalle rotte. Trasformare un luogo destinato allo spopolamento, sepolto tra i monti o nella solitudine della campagna, in destinazione. Il viaggiatore arriva, lavora, esplora il territorio, interagisce con gli abitanti. Poi dà consigli, «farei questo, farei quello», così il luogo, e le persone, cambiano. Una sorta di rigenerazione umana e materiale. «La storia dell’Home 4 Creativity la fanno le persone che l’attraversano», spiega Roberta. «Ci modifichiamo in funzione dell’umanità che arriva». Con questo modello anche il concetto di scelta viene invertito. Di solito il viaggiatore cerca la destinazione, poi la struttura dove soggiornare. Qui invece è il coliving, non il luogo, la chiave della ricerca. Solo una volta arrivato, paradossalmente, scoprirà che si trova in terra calabra. Scoprirà anche ci sono incontri umani da vivere. Sono le eccellenze del territorio scovate dopo un lavoro di ricerca sul campo. Al mio passaggio c’erano tre nomadi digitali sospesi tra lavoro e vacanza esperienziale, la workation. Cercavano tempi lenti per non farsi travolgere dalla frenetica attività al computer. E ricevevano in cambio la cultura del posto. Insieme a Lori di Seattle, sono andato ad ascoltare la storia di Ivano Trombino, produttore di liquori alle erbe rurali che ha battezzato il suo pluripremiato amaro Jefferson, in onore del capitano naufragato sulle coste cosentine nel 1871. Ogni tanto osservavo Vittorio da Policoro, lavora per una multinazionale olandese, camminare sul filo teso da una parte all’altra della struttura. Pratica che insegna la calma. L’unico sforzo è il controllo del respiro. Il cervello non i muscoli, fa arrivare dall’altra parte del filo. Di sera invece, mentre papà Roberto, il narratore del gusto, cucinava maccarruni al piretto, un agrume della famiglia dei cedri, Lea da Saint-Malo, nomade digitale “al soldo” di una ditta tedesca, insegnava cadenzati balli bretoni al fuoco del caminetto.
È frastagliata l’umanità che approda in quest’angolo di mondo. Sono arrivati polacchi, un pakistano, un australiano che faceva il giro del mondo in moto, un francese che aveva scaricato la moglie giù nella piana. «Mi ha fatto arrabbiare – diceva – ma è adulta e vaccinata. Prima o poi dovrebbe trovare la strada». Arrivano anche detox in cerca di una disconnessione totale. Niente telefono, niente computer, niente stress. In genere però chi arriva ha le antenne predisposte al dialogo. È aperto al mondo. Se ne va diverso da come è arrivato. Fuori intanto, nella piazzetta De Munno, sciama la variegata umanità di Montalto Uffugo: Vincenzo Moraca, pittore-cardiologo in pensione uscito per la passeggiata quotidiana, dipendenti comunali diretti al lavoro, Aurelio Cesareo, anche lui pittore tra sogno e memoria, impegnato nel chiostro di S. Domenico a dar vita alla bottega di liuteria che ricorda il tempo in cui gli ebanisti davano linfa all’economia della città. È qui che il piccolo Ruggiero Leoncavallo, trasferitosi a Montalto con la famiglia, il padre era magistrato regio, assistette nel 1865 all’omicidio di Gaetano Scavello, il domestico che l’accompagnava, vicenda che l’ispirò per l’opera lirica Pagliacci. Il museo a lui dedicato, dietro una anonima porticina, è un viaggio intimo e familiare nella vita e nelle opere del maestro. Non ci sono orari. Né numeri di telefono. Triste destino per l’unico museo italiano dedicato al grande compositore. L’apertura è affidata all’illuminato ispiratore e creatore, Franco Pascale. Ci sono la bacchetta da direttore d’orchestra del maestro, manoscritti, l’epistolario, costumi di scena, spartiti, locandine delle opere, il piano originale donato dalla famiglia Cisemi di Firenze. Nell’aria invece l’eco della campana della torre civica non si sente più. Allertava la popolazione in caso di pericolo ma il piccolo Leoncavallo la suonava a tradimento facendo venire i capelli dritti ai montaltesi. Un modo originale di esternare la futura vocazione.